Uno, nessuno e centomila è uno dei romanzi più famosi di Luigi Pirandello: iniziato già nel 1909 e rimasto a lungo in gestazione, uscì solo nel dicembre1925, sotto forma di romanzo a puntate, nella rivista La Fiera Letteraria, e in volume nel 1926. Questo romanzo, l’ultimo di Pirandello, riesce a sintetizzare il pensiero dell’autore nel modo più completo; l’ autore stesso, in una lettera autobiografica, lo definisce come il romanzo “più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita“. Ora, “Uno, nessuno e centomila”, in adattamento teatrale di Alessandra Pizzi, è in scena, sino al 30 aprile, al Teatro “Sala Umberto”, per la regìa della stessa Pizzi: in omaggio al duplice anniversario dell’ 80mo della morte di Pirandello (Roma, dicembre 1936) e del 150mo della nascita (1867). Enrico Lo Verso ( non a caso palermitano, diremmo…!) è un perfetto interprete del protagonista del romanzo, Vitangelo Moscarda: reggendo da solo due ore di spettacolo, sostanzialmente un monologo, da grande attore, senza un attimo d’ incertezza o di rilassamento.
Moscarda può essere considerato come uno dei personaggi più complessi del mondo pirandelliano, sicuramente quello con maggior autoconsapevolezza. E’ una persona ordinaria, che ha ereditato da giovane la banca del padre e vive di rendita. Un giorno, tuttavia, in seguito a un’ osservazione da parte della moglie, la quale gli dice che il suo naso è leggermente storto, inizia ad avere una crisi di identità, a rendersi conto che le persone intorno a lui hanno un’immagine della sua persona completamente diversa. Da quel momento l’obiettivo di Vitangelo sarà quello di scoprire chi è veramente. Decide quindi di cambiare vita (rinunciando ad essere un ricco banchiere, che in sostanza è diventato un usuraio) anche a costo della propria rovina economica e contro il volere della moglie, nel frattempo andata via di casa. In questo suo gesto c’è il desiderio di fare un’opera di carità, ma anche quello di non essere considerato più dalla moglie come una marionetta. Anche Anna Rosa, un’amica della moglie che lui conosce poco, gli racconta di aver fatto di tutto per far intendere a lei che il marito non era lo sciocco che lei immaginava, e che in lui non c’era il male.
Il protagonista arriverà alla follia in un ospizio: dove però – un po’ come il Poprishchin delle “Memorie di un pazzo” di Gogol – si sentirà veramente libero, fuori da ogni regola, in quanto le sue sensazioni lo porteranno a vedere il mondo da un’altra prospettiva. Vitangelo Moscarda conclude che, per uscire dalla prigione in cui la vita ci rinchiude, non basta cambiare nome (in questo, quindi, è, al tempo stesso, un “alter ego” e un contraltare del Mattia Pascal sempre pirandelliano, o, meglio, un Pascal maturato): proprio perché la vita è una continua evoluzione, e il nome, coi suoi effetti cristallizzanti, per l’individuo in realtà rappresenta la morte. Dunque, l’unico modo per vivere è vivere attimo per attimo la vita, rinascendo continuamente in modo diverso. In questa conclusione, Pirandello rivela, da un lato, gli influssi dell’esistenzialismo novecentesco (ma anche, diremmo, riverberi di Max Stirner, il pensatore della sinistra hegeliana piu’ attento al valore del singolo). Dall’altro, l’eredità vitalistica di filosofi “greco-siciliani” come Pitagora( a sua volta influenzatodalle antiochissime dottrine sulla metempsicosi), Eraclito (“Pànta rei”! ) e il suo antico concittadino Empedocle di Agrigento.
Il Vitangelo interpretato da Enrico Lo Verso è, al tempo stesso, uomo di oggi, di ieri, di domani; il testo pirandelliano diventa critica d’ una società che oggi, ben piu’ di cento anni fa, tende alla partecipazione di massa – che diventa sempre piu’, per certi aspetti, massificazione, anche nella smania di aver contatti a tutti i costi, anzitutto sui social network – a svantaggio della specificità dell’individuo. Ma l’interpretazione di Loverso/Vitangelo è una critica volta ad un finale positivo, che accentua la stessa concezione vitalistica di Pirandello ( quella concezione, ricordiamo, usata dal drammaturgo, a lungo fascista, da alibi contro le accuse di pessimismo esistenziale rivoltegli dalla critica tradizionale e da settori del mondo politico): la scoperta per ognuno di essere stessi, dentro la propria bellezza.