Oggi come oggi, quando si parla di serie tv italiane, soprattutto di un certo tipo, è inevitabile fare il paragone con i due prodotti che più di tutti hanno tracciato il percorso odierno, ovvero Romanzo Criminale, prima, e Gomorra, poi. I punti di contatto fra queste due produzioni trascendono la semplice appartenenza al medesimo genere, quello delle cosiddette Criminal series, ma sono molto più profondi, anche a livello di percorso artistico, se così si può chiamare. Sia Romanzo Criminale che Gomorra, infatti, prima di diventare prodotti seriali, sono state innanzitutto libri – di
Giancarlo de Cataldo il primo e di Roberto Saviano il secondo – e, in seconda battuta, film. La vera novità, che in parte ha determinato il loro successo, è stata rappresentata dal punto di vista utilizzato, che in questi casi non è stato quello del detective amatoriale o del poliziotto alla caccia dei criminali, ma, al contrario, era interno al sistema malavitoso. I cattivi erano i veri protagonisti. Per i prodotti italiani questo è stato un vero e proprio cambio di rotta rispetto alla maggior parte della storia dell’intrattenimento precedente. Ed ecco che arriviamo a Suburra, terzo tassello che si inserisce fra quelli descritti fino a questo momento. Suburra è un libro, scritto ancora da Giancarlo de Cataldo insieme a Carlo Bonini, da cui è stato tratto un film diretto da Stefano Sollima. Erede spirituale di Romanzo Criminale, sia per l’ambientazione che per i collegamenti di vario genere fra alcuni personaggi e situazioni, il libro si concentra sulla descrizione – romanzata – della malavita romana negli anni zero, descrivendo quello stesso intreccio fra criminalità organizzata ed istituzioni che è stato messo sotto i riflettori con l’inchiesta – questa volta reale – di Mafia Capitale. Come i due apripista di cui abbiamo parlato inizialmente, anche il percorso di Suburra ha seguito le medesime tappe: libro e film di successo e, in una terza fase, un prodotto seriale che, nelle intenzioni, sarebbe dovuto essere un ulteriore passo in avanti rispetto a ciò che era stato fatto in precedenza. Ma qualcosa non è andato proprio come si sperava. Qualcosa, nella qualità generale, è venuto a mancare.
In effetti alcune differenze sostanziali fra la serie targata Netflix e le due precedenti (che, invece, portavano il marchio di Sky) ci sono. Una su tutte, il percorso narrativo che si è scelto di seguire. In altre parole, sia RC che Gomorra, quando sono partite, lo hanno fatto da zero, Suburra no. Per le prime due, dell’intreccio e dei personaggi
non si sapeva nulla fino alla messa in onda, la storia si è andata a costruire piano piano, così come i caratteri dei vari Libanese, Dandi, Savastano, e via dicendo. Per la serie tratta dal libro della coppia Bonini – De Cataldo, invece, si partiva già da un punto fermo, ovvero dal film, di cui questa serie non è altro che un prequel. C’è stato quindi meno spazio di manovra per lavorare sui personaggi, dovendo comunque fare riferimento a quello che già era stato messo su “pellicola”. Anche il fatto che per alcuni di loro siano stati scelti gli stessi attori che ne avevano vestito i panni del film di Sollima, ha reso Suburra una serie figlia di quello che era stato il film. Tirandone, in qualche modo, il freno. Una cosa va chiarita subito: gli attori che sono stati scelti per interpretare criminali, faccendieri, politici corrotti, hanno regalato – quasi tutti – prove di altissimo livello. Su tutti spiccano Alessandro Borghi, interprete di Aureliano Adami, figlio di un malavitoso di Ostia, Giacomo Ferrara, Spadino, fratello di un boss sinti, e Francesco Acquaroli, il Samurai, vero e proprio burattinaio delle faccende romane. Borghi e Ferrara, soprattutto, hanno reso benissimo le diverse sfaccettature di quelli che sono sì due giovani criminali, ma diversissimi fra loro, ognuno con le proprie paure, i propri timori, i tic, le ambizioni, i segreti da nascondere.
Però, restando su quanto detto finora, non si spiega come mai questa serie sia così indietro rispetto a quelli che sono
stati i punti di riferimento del passato. Il vero problema risiede, probabilmente, proprio nell’intreccio narrativo che si è cercato di seguire. Un intreccio che è tale solamente per definizione, ma i cui punti di climax vero e proprio sono troppo rari per essere considerati veramente incisivi. Tutto procede esattamente come ci si aspetta che proceda, in maniera più o meno netta. Non ci sono repentini cambi di rotta, si avverte la mancanza di sottotrame realmente interessanti. E qui arriviamo anche a due dei personaggi principali che in qualche modo sono stati penalizzati dalla sceneggiatura. Lele ed il consigliere comunale Cinaglia, impersonati rispettivamente da Eduardo Valdarnini e da Filippo Nigro, sono quelli che forse subiscono di più una malcelata fretta nella caratterizzazione e nella loro evoluzione. Del primo risulta poco plausibile il suo coinvolgimento in un giro grosso della malavita romana, perlomeno nelle tempistiche descritte dalla serie, essendo semplicemente il figlio di un carabiniere coinvolto in un piccolissimo giro di spaccio. D’improvviso, questo figlio della Roma bene, si trova invischiato in omicidi, rapimenti di alti prelati e intrallazzi che coinvolgono le famiglie più grosse della mala. Tutto, forse, troppo velocemente. Altrettanto rapido è stato il voltafaccia di Cinaglia che, pur interpretato benissimo da Nigro, si ritrova da intransigente consigliere comunale, idealista, sempre in lotta per garantire il bene comune ad essere uno degli uomini più importanti di Samurai, rigettando, in pratica, tutto quello per cui aveva lottato fino a quel momento. Certo, le motivazioni di questo cambiamento ci vengono fornite, come anche alcuni momenti di disagio per questa nuova veste che è, in qualche modo, costretto ad indossare, ma l’aria da freddo calcolatore che si dice interessato addirittura ad “incontrare la Mafia”, cala troppo velocemente su di lui. E la fretta, come ci hanno insegnato, ancora una volta, Romanzo Criminale e Gomorra, non è giustificabile per un prodotto seriale del genere. È proprio questa la grande differenza tra un film ed una serie a puntate, la possibilità di non dover concentrare tutti gli eventi in poco più di un’ora e mezza di girato. E qui, purtroppo, Suburra toppa clamorosamente. Certo, restano le impressionanti prove fornite dagli attori (non dimentichiamoci dei bravissimi Adamo Dionisi e di una sorprendente Barbara Chichiarelli, al suo esordio sullo schermo, mentre troppo anonima per il ruolo rivestito è stata la prestazione di Claudia Gerini), una bella messa in scena ma, quando si va a vedere il fulcro della serie, i suoi punti nevralgici, si sente che manca qualcosa. Tutto troppo pulito, troppo lineare, un po’ come la Roma che è stata rappresentata, il cui marcio è invisibile, sottotraccia, nascosto agli occhi dei più ma che, in superficie, risulta essere fin troppo lucente.
Andrea Ardone