Scende il sipario sul palco ma non si chiude quello della mente dopo aver assistito a “Stabat Mater. Oratorio per voce sola”, spettacolo diretto da Giuseppe Marini in scena fino a domenica 11 marzo al Piccolo Eliseo, in cui il testo di Antonio Tarantino è interpretato da un’intensa Maria Paiato.
“Non è uno spettacolo consolatorio –spiega il regista- Se c’è una comicità è sicuramente infettata sin da subito dall’orrore di un’esistenza degradata, di chi in qualche modo conserva ancora una certa vitalità ma è convinta di far parte di quella che lei chiama “civiltà” o presunta modernità, ma dalla quale è esclusa nei fatti: il rapporto con le istituzioni, con le assistenti sociali per la cura e la crescita del figlio”.
Cerca di affermare la sua dignità, combatte con i mezzi che le sono propri le “gabbie” e le costrizioni che la inglobano Maria Croce, odierna e potente trasposizione di una forza genitrice totalmente calata in un quotidiano degradato e degradante, che da quella pedana circolare sulla quale e dalla quale si muove, scaglia il vortice di parole che catturano la sua esistenza. Vissuta ai margini della società nei quali lei, ex ragazza madre, ex prostituta -forse non tanto ex- ora stralunata straccivendola, tenta di preservare il suo più grande bene: il figlio non riconosciuto dall’uomo che l’ha ingannata.
È una loquacità incontenibile, “comicamente oscena”, alla quale l’individuo affida il compito di preservare la propria sopravvivenza terrena. Slogan televisivi, storpiature, “ictus verbali” fanno da cornice ad una lingua che non riconosce più la sua matrice – Maria Croce si è trasferita da un Sud Italia poco identificato a Torino: “Chi non possiede più il linguaggio non possiede più la personalità. E quindi si fa in quattro con quel linguaggio per riaffermare continuamente ciò che sente che gli sta sfuggendo, ecco perché le reiterazioni e le ripetizioni”. Lo “stra-parlare”, lo “stra-ridire” divengono così l’unico mezzo possibile per uscire dal vortice che sta risucchiando la propria esistenza: “È il linguaggio della patologia di chi sta perdendo piede, corpo, identità –aggiunge Marini- Questo mi ha catturato. Non c’è solo la bellezza della storia, ma è come la racconti: lì c’è da andare a studiare”.
Il sorriso (amaro), la rabbia, la dolcezza, le lacrime si alternano e si sovrappongono: “La grandezza di questo testo è che rappresenta la vita, piena di registri, per dirla banalmente, di alti e di bassi. Si può sorridere mentre si sta piangendo, o piangere mentre si ride: questa alchimia è difficilissima da raggiungere a teatro”. Una commistione di stati d’animo che “soltanto dal punto di vista del mestiere obbliga e offre l’attrice in prova suprema”. L’interpretazione di Maria Paiato rapisce dal palco il pubblico in sala. “Sono felicissimo di averla diretta e di averla portata, a mio avviso, in una delle più grandi interpretazioni della sua lunghissima carriera, già costellata di successi. Qui è eccezionale e non perché l’abbia diretta io”.
Un viaggio trasfigurante che include un lavoro con il corpo oltreché con i dialetti e che si muove tra citazioni visive ed uditive: “Non mi piacciono in generale le scenografie che da apertura di sipario ti raccontano tutto e subito. Il teatro è il luogo dell’evocazione, del suggerimento, il luogo dove lo spettatore può compensare con la sua immaginazione, con la sua visione attraverso la parola anche quello che non vede. Il pubblico è un elemento molto importante a teatro perché è l’altro attore e devi lasciargli la possibilità di fare il suo lavoro, non imboccarlo a ogni piè sospinto o spiegargli con tre sottolineature di matita rossa quello che vuoi dire”.
Tra i progetti futuri che il regista ci anticipa, torna “La classe” di Vincenzo Manna che sarà in scena alla Sala Umberto a Roma e poi in una tournée nazionale. Uno spettacolo di teatro civile, come spiega Marini, che segue l’esempio di “Mar del Plata” di Claudio Fava e de “Il caso Braibanti” di Massimiliano Palmese, che sarà in scena al Franco Parenti di Milano, al Torlonia di Roma per poi approdare a Napoli, Bologna e Bari. “Rileggere i classici è una cosa straordinaria. Il classico per definizione parla ancora dell’oggi” afferma il regista, che aggiunge: “Però ci sono degli esempi così eclatanti, così strazianti alle nostre porte. Perché il teatro non se ne deve occupare?”. E conclude: “L’importante è saper scrivere una storia che sappia narrare coi mezzi del teatro. Non possiamo gareggiare e non sarebbe giusto, con la televisione, con la radio, con chi probabilmente arriva prima a livello di notizia. Il teatro non è notizia, è coscienza profonda da gratticchiare in qualche modo e da stimolare, non si pasce della notizia immediata. Quello è un altro lavoro”.