Nella sua prima accezione generica è il rapporto o vincolo affettivo, che comporta reciproca fedeltà, oppure una limitazione della libertà individuale. Diventa il mezzo di unione, congiunzione o chiusura, ciò che serve a legare, a trattenere.
In Giappone il termine che traduce il legame millenario, stretto e complesso che c’è tra il suo popolo e l’uso delle corde, è lo shibari-縛, rituale che riflette perfettamente le proprie radici antiche, metodiche e spirituali. Così le cerimonie tradizionali giapponesi, che inizialmente erano collegate a rituali religiosi, hanno sempre incluso l’uso di funi e legamenti, come a simboleggiare una connessione aperta tra l’umano e il divino.
Shibari è termine traducibile con la parola tessitura o involucro di corde, entrambe le traduzioni si riferiscono all’interazione tra corde e mente che, attraverso i meridiani energetici Ki, ovvero l’energia della vita che scorre, controlla la vita corporea all’interno del corpo parallelamente alla sua interazione con l’ambiente esterno. L’energia Ki e le tecniche dello shibari si sono fuse e hanno creato nei secoli, situazioni di equilibrio assimilabili ai modelli di Yin e Yang, su livelli diversi tra pelle e spiritualità. Inizialmente venne intesa come forma di prigionia, così spesso i detenuti non venivano incarcerati ma immobilizzati da una corda e nelle determinate forme e disegni della corda, c’erano scritte precise indicazioni sulla classe sociale dell’accusato e anche il motivo della sua prigionia.
Inserendosi da subito nel mondo dell’arte, l’intreccio tra corda e corpo ha spinto gli artisti a rintracciare linee e punti di vista inusuali; una ricerca di immagini astratte e geometriche che nascono dall’ammirazione di questo particolare connubio. Fin dall’inizio dell’Ottocento lo shibari, diventando kinbaku-緊縛, assumeva quella valenza erotica che risiede nella profondità del rapporto che si crea durante l’atto e nella bellezza del corpo che reagisce alla corda, la stessa valenza che si è successivamente tradotta in arte d’avanguardia.
Seiu Ito, artista particolare e molto discusso, è considerato il padre del kinbaku. Iniziò la sua carriera per rappresentare le torture tipiche del periodo Edo, legando i suoi modelli in varie posizioni li immortalava e da tali fotografie traeva ispirazione per i suoi quadri.
Con la serie fotografica The Yomikiri Romance, il pittore gestiva le forme, le geometrie, le espressioni e le traduceva in studi artistici sulle forme del corpo umano. Per fare questo usava molto spesso la sua seconda moglie come modella, conducendo esperimenti di “moderazione” fino a fotografare il suo corpo nudo in sessioni che duravano fino a tre ore.
Il passo dall’arte di immobilizzazione dell’avversario all’arte che abbellisce gallerie e privè, è dunque breve e sembra trovare il modo di esprimere una cultura erotica complessa, dove rimanere avvinti ad una corda nel vuoto, un corpo contro l’altro, pelle a pelle coordinando perfettamente i movimenti per rimanere in equilibrio. Un arte della ritualità dei gesti.
Questa disposizione sapientemente corde e pelle, con l’uso di giochi di forme e nodi, riflette anche un’altra eredità antica, quella dell’Ikebana-生け花 che da sempre sta a significare sensualità, vulnerabilità e forza, racchiuse in una composizione floreale. Lo shibari diventa l’arte della composizione corporale, di un corpo spinto al limite tra fragilità e vigore, grazia e vitalità. Così il Nawashi, l’artista della corda, in grado di creare pattern geometrici e forme che contrastano stupendamente con le curve e rientranze naturali dei corpi, diventa il mediatore tra la pelle e la sua energia.
Oggi questa arte, che ha attirato lo sguardo dell’Occidente, infuria nella sua versione popshow. Erroneamente tradotta con il termine inglese bondage, questa tendenza non è del tutto assimilabile alla cultura antica dello shibari-kimbaku, prima di tutto poiché in quest’ultimo non è importante dove o perché si mette la corda, ma sopratutto come. Tra chi lega e chi è legato così si crea una connessione reciproca e la corda ne diviene il mezzo. Si distinguono anche nello scopo: nel bondage occidentale l’atto è collegato a uno scopo schietto e sessuale, nello shibari l’arte arriva molto prima, si concentra sull’estraniazione dai giochi di ruoli della dominazione e sottomissione, si riferisce al “luogo come mezzo”, come un luogo di insegnamento e apprendimento dell’uso del proprio corpo, un elemento mistico ed estetico da cui il bondage occidentale si è facilmente estraniato.
Per questo la traduzione “bondage giapponese” è inadeguata e superficiale: la maggior parte delle persone sentendo queste parole ne riconosce solamente la schiavitù e la tecnica; nello shibari Do, come viene chiamato lo stile di vita che qui trova le radici, c’è tutto l’amore giapponese, il corteggiamento, la manipolazione dell’energia che ricordano le tradizioni del Buddismo Zen. L’uso erotico della schiavitù è solo un aspetto di questo stile di vita che si è tradotto nei tempi moderni come arte dello spettacolo, e non un modo per allenare la mente e il corpo.
Se guardiamo invece al Giappone di oggi, tra una geisha raffinata e una corda stretta, c’è Nobuyoshi Araki che riesce ancora a tradurre in fotografia un’arte lunga un millennio, nel suo senso profondamente estetico. I suoi soggetti nudi non riescono mai a risultare volgari, perché portano con sé l’ineffabilità tipica dello spirito giapponese.
La donna e Tokyo divengono le assolute protagoniste di un racconto in polaroid dove bianchi e neri ritoccati a mano, esprimono i confini tra sacro e profano senza invadere nessuno dei due concetti. Il suo è un mondo di realtà e finzione nelle donne appese ai soffitti, distese sui tatami o ritratte in camere d’albergo; donne monumentali di una traduzione difficilmente traducibile in lingua originale.
D’altro canto, lo Shibari non è altro che un monumento statico, tanto delicato e corporeo quanto antico e fragile, che riesce a rivivere ancora oggi, negli occhi degli artisti.