Ha risposto per oltre quattro ore alle domande dei magistrati della procura e agli investigatori del Ros raccontando di quando il 20 novembre del 2018 venne rapita da una decina di uomini armati a Chakama, un villaggio a 80 chilometri da Malindi in Kenya. E di come sia finita in Somalia, forse nelle mani di un gruppo islamista legato ad Al-Shabaab. Lo ha fatto con lucidità, senza mai commuoversi, senza versare neppure una lacrima, con una forza d’animo che ha stupito non poco i suoi interlocutori.
Silvia Romano, la cooperante milanese tornata in Italia oggi, ha fatto mettere a verbale di “essere stata trattata sempre bene”, durante questa lunga prigionia. “Sono serena”, ha assicurato la giovane cooperante milanese. “Mi avevano assicurato che non sarei stata uccisa. E così è stato”.
Poi ha aggiunto: “In questi mesi sono stata trasferita spesso e sempre in luoghi abitati, alla presenza degli stessi carcerieri. Mi hanno portato in varie case, mi rinchiudevano nelle stanze, ma mai da carcerata”.
Il trasferimento in Somalia è durato circa un mese: un viaggio in parte fatto in moto e in parte a piedi. Nessuna domanda è stata fatta circa il pagamento di un riscatto per la sua liberazione.
Quanto alla sua conversione all’Islam la ragazza ha confermato quanto era filtrato poco prima dell’atto istruttorio: “La conversione è stata spontanea, è stata una mia libera scelta, non c’è stata nessuna costrizione da parte dei rapitori. Non è vero invece che sono stata costretta a sposarmi, non ho subito violenze”.
Fonti investigative non escludono che possa “trattarsi di una situazione psicologica legata al contesto in cui la ragazza ha vissuto in questi 18 mesi, non necessariamente destinata a durare nel tempo. Ci sono stati altri casi in passato”.
Silvia Romano non la pensa allo stesso modo: “La mia conversione è avvenuta a metà prigionia, quando ho chiesto di poter leggere il Corano. E sono stata accontentata”.
Liliana Manetti