La notizia che le botteghe orafe del Ponte Vecchio, abbiano deciso, in maggioranza di non riaprire a causa dell’incertezza provocata dai protocolli sanitari necessari alla loro riorganizzazione, che potrebbero creare enormi difficoltà logistiche e di applicazione, certamente fa scalpore, non solo per la notorietà mondiale del contesto storico artistico nel quale operano gli orafi. Il Ponte Vecchio, infatti, è luogo talmente famoso nel mondo, da potersi considerare quasi un marchio di fabbrica, da quando nel 1598 vi vennero stabiliti, appunto gli orafi, per volere della famiglia Medici, al posto di macellai e pescivendoli. E proprio questo suo essere fabbrica, quindi luogo produttivo, fa del Ponte Vecchio un importante volano economico con centinaia di addette alla vendita, prevalentemente donne ed oltre i 50 anni di età con esperienza pluridecennale nel settore, che spesso hanno lavorato sempre per lo stesso datore di lavoro, creando con lo stesso, il rapporto di fiducia ed amicizia necessario per poter avere le chiavi per aprire e chiudere gioiellerie che custodiscono oggetti di immenso valore al proprio interno. In assenza di aiuti statali, ed in presenza di molteplici tipologie contrattuali, spesso tarate sulle esigenze specifiche di ciascuna commessa, la sopravvivenza economica di centinaia di persone, appunto, diventa a rischio, e già questo rappresenta un problema enorme per la collettività. Ma aldilà delle vetrine dei negozi, che in tempi normali illuminano il Ponte vecchio col loro splendore dorato che si riflette sull’Arno, esiste un mondo, altrettanto importante, quello della filiera dell’artigianato orafo, ed altrettanto in difficoltà. Abbiamo intervistato Daniela, la titolare del “Laboratorio Orafo Nerdi” con sede all’interno del complesso della “Casa dell’Orafo” che racchiude svariate attività di artigiani orafi, che ci ha detto: “La nostra attività, giunta alla terza generazione, è stata aperta nel 1948, in periodo postbellico, ma almeno allora vi era una prospettiva di rinascita economica, cosa che oggi, non si vede all’orizzonte, stante l’incertezza sul futuro, dettata anche dalla difficoltà di applicazione del distanziamento sociale richiesto in ambienti piccoli come quelli artigiani. Il problema non è tanto nelle distanza tra me e Luca, il mio collaboratore che lavora con noi da 40 anni, avendo già spazi separati fra noi, ma nel contatto con i clienti, moltissimi dei quali sono turisti, che potevano vivere la realizzazione degli oggetti, osservando da vicino la sapienza artigiana e la cura dei dettagli che caratterizzano il nostro lavoro, rendendolo unico, direi quasi un patrimonio culturale, che oggi rischia di scomparire, insieme alle piu’ conosciute botteghe del Ponte Vecchio, che sono anch’esse nostre clienti per determinate lavorazioni. Tuttavia siccome siamo fiorentini, ed abbiamo passato, anche come bottega, appunto, varie vicissitudini altrettanto gravi quali l’alluvione del 1966, speriamo di potercela fare a sopravvivere, proprio per questa nostra passione artigiana, che ad esempio, ci ha regalato la piacevole sorpresa di ricevere la mail di un cliente texano, che era stato nostro cliente, insieme a sua moglie, e ci ha contattati per la realizzazione degli anelli per il suo 25esimo anniversario di matrimonio. Ecco il messaggio che mi sento di poter trasmettere è questo: pur tra mille difficoltà, cerchiamo di resistere e ripartire. Ce la possiamo fare.” Da fiorentino, non posso che condividere questo auspicio, anche conoscendo la caparbietà degli artigiani di questa città, che malgrado il progressivo avanzamento del turismo mordi e fuggi, sono riusciti a mantenere la posizione, impedendo, insieme ad altri soggetti imprenditoriali e della società civile, la desertificazione culturale di Firenze, che a me piace chiamare col piu’ poetico nome di Fiorenza, la città del Fiore e della Rinascenza.
Luca Monti