L’ultimo rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa ha messo in evidenza un dato molto significativo. In dieci anni il nostro Paese ha perso quasi 500 mila italiani (saldo tra partenze e rientri di connazionali) e tra questi, quasi 250 mila giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, con una stima pari a 16 miliardi di euro in termini di valore aggiunto perso (oltre 1 punto percentuale di Pil).
Un’emorragia molto grave per un paese come il nostro, tra i più vecchi del mondo, e che nel momento della ripartenza dopo il lockdown diventa ancora più penalizzante. Tra i cervelli in fuga (si spera momentanea) dall’Italia c’è anche Francesca Roscini, marchigiana di Fabriano, laureata nel 2010 in ingegneria civile presso l’Università di Perugia, dottore di ricerca presso l’Università Roma Tre e dal primo novembre 2019 distaccata presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e delle Strutture presso l’Università di Sheffield con il progetto “GreATeRS” = GREEN Advanced TEchnologies for the Retrofitting delle strutture in muratura. Francesca ha staccato il biglietto per l’Inghilterra grazie al prestigioso “Marie Skłodowska-Curie Individual Fellowship”, programma di ricerca individuale finanziato dall’Unione Europea e intitolato alla scienziata polacca naturalizzata francese, vincitrice del Premio Nobel per la fisica nel 1903 e del Premio Nobel per la Chimica nel 1911. Il progetto “Marie Curie” mira a sostenere la formazione alla ricerca e lo sviluppo di carriera dei ricercatori titolari di dottorato di ricerca o con quattro anni di esperienza nella ricerca.
La partecipazione al progetto “Marie Curie” è solo l’ultimo dei riconoscimenti e dei successi professionali di Francesca Roscini che, grazie alla tesi di dottorato, ha vinto il premio internazionale “Galileo Galilei” – sezione giovani. Tra gli atenei con i quali Francesca Roscini collabora c’è anche l’Università Telematica eCampus ed è inoltre coinvolta in diversi programmi di ricerca internazionale.
L’esplosione della pandemia da COVID-19 non ha fermato l’intensa attività di Francesca che ci risponde in videochiamata dal suo appartamento di Sheffield.
Il tuo curriculum di giovane ricercatrice è già ricco di attività e progetti svolti. Quali sono stati i contenuti principali del tuo lavoro fino ad ora?
Le mie ricerche inerenti le tesi di laurea, prima triennale e poi magistrale, si sono concentrate rispettivamente sulla riabilitazione tramite materiali compositi innovativi e sul monitoraggio strutturale. Dopo alcuni anni, svolti come ingegnere presso uno studio tecnico, sono entrata a far parte del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università di Perugia come assegnista di ricerca, dove ho approfondito gli studi sulle prestazioni sismiche degli elementi strutturali in calcestruzzo. Successivamente, ha conseguito il dottorato europeo in ingegneria civile all’Università di Roma Tre. La principale tematica della mia ricerca ha riguardato lo studio di rinforzi esterni innovativi realizzati con materiali compositi avanzati per la riabilitazione delle strutture esistenti danneggiate da eventi sismici.
Cosa ti ha spinto a partecipare alla call del programma europeo Marie Curie?
In un mondo caratterizzato dalla globalizzazione anche la ricerca deve avere una dimensione internazionale ed allargare il proprio network e questo è ancora più vero in Italia dove a volte ci si scontra con una visione un po’ troppo concentrata sulla dimensione nazionale. I docenti con i quali collaboro mi hanno fortemente incoraggiato a fare domanda per il programma di ricerca Marie Curie che sinceramente non pensavo di ottenere. Ho scritto il progetto mentre ero in vacanza e la notizia dell’ammissione è stata sicuramente una grande e gradita sorpresa. Credo sia stata vincente l’idea progettuale basata sui principi di sostenibilità ambientale, in linea con Horizon 2020, il Programma Quadro europeo per la Ricerca e l’Innovazione.
Sicuramente mi ha aiutato la precedente esperienza in Inghilterra nel 2017, nel corso della quale ho cominciato a costruire i primi contatti, anche grazie al Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Roma Tre che ha un solido network estero e promuove la mobilità internazionale.
In cosa consiste il tuo progetto?
La sicurezza urbana e la mitigazione del rischio sismico sono due ragioni per cui la politica e l’ingegneria strutturale di tutto il mondo stanno concentrando le risorse economiche e l’attenzione su edifici storici costruiti con muratura non rinforzata (UnReinforced Masonry: URM). Questi costituiscono oltre il 70% del patrimonio edilizio esistente in tutto il mondo e la stragrande maggioranza del patrimonio culturale e architettonico mondiale. Sebbene la muratura abbia dimostrato di essere un materiale da costruzione altamente versatile e durevole, gran parte del patrimonio edilizio esistente in Europa e nei paesi in via di sviluppo è costituito da edifici URM non ingegnerizzati, spesso costruiti con materiali deboli e che seguono pratiche di costruzione inadeguate. Di conseguenza, la maggior parte del patrimonio edilizio esistente necessita fortemente di risanamento e di rinforzo strutturale. Negli ultimi decenni, sono stati implementati vari approcci di rinforzo strutturale per migliorare l’integrità delle strutture, ma questi possono risultare costosi, con prestazioni eccessivamente elevate e altamente invadenti. Il progetto “GRE.A.TE.R.S.”, finanziato dall’UE e al quale sto lavorando, svilupperà una soluzione più sostenibile ed economica che utilizza tessuti di fibre naturali incorporate in una matrice inorganica di malta a base calce. Secondo il progetto, questa soluzione affidabile può essere utilizzata per soddisfare i criteri di prestazione specifici degli edifici in muratura.
Che sensazioni hai provato quando hai saputo della partenza?
Il sentimento iniziale di disorientamento ma anche di contentezza ha lasciato spazio ad una grande soddisfazione. Mi trovavo molto bene a Roma Tre ma dopo 5 anni sentivo anche di aver bisogno di nuove motivazioni e di nuovi orizzonti per la mia carriera.
Qual è la differenza fondamentale tra l’università italiana e quella inglese?
L’università inglese è molto ispirata ad una concezione aziendale, con un’impronta privatistica. Le tasse universitarie sono in genere molto più alte delle nostre. Docenti e ricercatori qui hanno molti strumenti di supporto, addirittura una clinica riservata, ma anche chi viene assunto come docente, pur essendo pagato dall’università, deve impegnarsi per reperire fondi esterni. Molta attenzione viene data non solo alla ricerca in senso stretto ma anche all’individuazione di sovvenzioni esterne per portare avanti le attività. Io stessa sono qui in virtù di un progetto esterno finanziato dall’Unione Europea e non dall’università. Tutti i fondi per la ricerca sono prevalentemente esterni all’università.
Quali caratteristiche dell’università inglese porteresti in Italia?
Sicuramente cercherei di dare ancora più attenzione ad aspetti quali il management e l’imprenditorialità e perfezionerei ulteriormente i meccanismi finalizzati ad attirare fondi dall’esterno, in modo particolare dal mondo aziendale e dall’Unione Europea. Sono stati fatti molti passi in avanti in questo senso ma a mio parere la strada è ancora lunga.
Quali consigli daresti ad un laureato che vuole fare ricerca all’estero?
Lavorare tanto con molta umiltà, non sentirsi mai arrivato. É fondamentale sviluppare un network professionale che comprenda soggetti esteri e sfruttare qualsiasi occasione offerta dall’università, dal mondo imprenditoriale o da altre istituzioni per la propria crescita personale e professionale.
Secondo gli ultimi dati ISTAT solo il 27,6% dei giovani italiani tra i 30 e i 34 anni possiede una laurea o titolo terziario (33,8% delle donne e 21,6% degli uomini). Un livello significativamente inferiore alla media europea del 41,3%. Quali i motivi secondo te?
La crisi economica e la difficoltà per un laureato di trovare un lavoro in linea con gli studi sono elementi che concorrono a creare questa situazione. Se matura la convinzione diffusa di non riuscire a mettere a frutto la propria laurea e che il tempo speso sui libri sia sprecato perché tanto l’occasione giusta non arriverà mai allora c’è un problema. Anche per i laureati in ingegneria, una laurea tradizionalmente forte sul mercato del lavoro, la situazione non è semplice e c’è la necessità continua di aggiornarsi. In molti casi lo studio e la specializzazione stanno diventando un lusso per giovani che non hanno famiglie in grado di sostenerli anche nei momenti di incertezza e di precarietà.
Dal tuo punto di vista cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione della ricerca in Italia?
Mettere al centro del sistema la meritocrazia e destinare più fondi alla ricerca e all’aggiornamento. La ricerca è un investimento a medio-lungo termine che spesso paga ma che ha bisogno dei suoi tempi. In questo senso è importante ottimizzare le risorse ed essere lungimiranti. Un paese all’avanguardia è quello che fonda le sue radici sulla ricerca. L’albero della ricerca porta buoni frutti ma va coltivato e curato sempre con un occhio all’ottimizzazione delle risorse. La pandemia ci sta dimostrando che adeguati investimenti nello studio e nella prevenzione dell’epidemia avrebbero contribuito a limitare la catastrofe sanitaria ed economica alla quale stiamo assistendo. L’esempio della ricercatrice italiana assunta solo dopo aver isolato il Coronavirus è emblematico e non degno di un paese che si considera avanzato.
Se potessi scegliere rimarresti in Inghilterra o torneresti in Italia?
La mia priorità è tornare perché non amo stare troppo tempo lontano dalla mia famiglia e dai miei affetti. L’estero ti offre più possibilità ma il calore della famiglia è insostituibile. Questi mesi di lockdown sono serviti per aumentare ancora di più la consapevolezza sulla vera e unica ricchezza che rappresentano la famiglia e gli affetti. Per questi motivi, nel mio futuro vedo una famiglia in Italia.
La principale difficoltà che hai incontrato in Inghilterra?
Ho dovuto affrontare numerose pratiche burocratiche per organizzare la permanenza però fortunatamente il tutto si è risolto in maniera abbastanza rapida. In generale, soprattutto in questa situazione caratterizzata dall’emergenza COVID-19, è fondamentale lo spirito di adattamento nell’assimilare nuove procedure e adattare la propria vita.
Come stai vivendo questa fase di emergenza?
Abbastanza bene. Ci hanno dato tutti gli strumenti per lavorare da casa. Siamo fortunati perché riusciamo a svolgere tutte le nostre attività da remoto, l’unica cosa che manca è il laboratorio. Speriamo di riprendere presto l’attività in laboratorio dove sarà più facile mantenere il distanziamento rispetto agli uffici. I meeting si svolgono online ed in un certo senso le dinamiche sono più semplici perché, se l’interlocutore è disponibile, è più facile interagire in qualsiasi momento. Sicuramente le attività si sono velocizzate perché siamo tutti più collegati. Sarebbe molto utile per chi vive all’estero, soprattutto in questo momento, poter fruire facilmente dei canali RAI per sentirsi un po’ di più a casa ed auspico si possa disporre di test garantiti o tamponi per chi si appresta a rientrare dall’estero.
Qual è la tua impressione sul comportamento degli inglesi in questa fase?
A volte non sembrano molto attenti al distanziamento sociale e mi è capitato di farlo notare. Viste le notizie provenienti dal nostro paese, noi italiani ci siamo premuniti circa una settimana, dieci giorni prima rispetto a loro.
Hai mai pensato in questo momento di difficoltà di voler tornare in Italia?
In Italia c’è più attenzione all’individuo ed il sistema sanitario è sicuramente di ottima qualità ma qui in Gran Bretagna ha contribuito a rassicurarmi una rete di sostegno costituita dai consolati, dall’ ambasciata, dai deputati eletti all’estero. I rettori delle principali università inglesi hanno deciso il lockdown prima ancora che il Governo prendesse decisioni in merito e questo ci ha rassicurati così come il fatto di disporre qui a Sheffield di una clinica universitaria. Tutto si è sviluppato molto velocemente ed alla fine ho deciso di rimanere qui per evitare qualsiasi rischio di contagio per i miei familiari.
Cosa ti piace della vita in Inghilterra e cosa non ami?
In condizioni normali i ritmi inglesi sono molto diversi rispetto a quelli italiani perché alle 18 è già tutto chiuso quindi per alcune incombenze, come per esempio la spesa, bisogna organizzarsi la mattina presto o nel fine settimana. D’altro canto, Sheffield mi piace molto perché la vita è decisamente meno frenetica rispetto a Roma e i ritmi sono più a misura d’uomo. Non perdere un’ora nel traffico contribuisce sicuramente a migliorare la qualità della vita.
Come ti vedi tra cinque anni?
Il mio sogno è quello di formare una famiglia in Italia e di affermarmi come docente in una università italiana.
Dopo questi mesi intensi e anche un po’ difficili, qual è la prima cosa che farai quando tornerai in Italia?
Dopo aver riabbracciato i miei affetti, da buona marchigiana mi piacerà riassaporare il piacere di una pizza accompagnata da un buon bicchiere di Verdicchio. Sheffield è verdissima ed in un certo senso mi ricorda il territorio umbro-marchigiano dal quale provengo ma i sapori italiani sono insostituibili.
di Emidio Piccione