Il 2 settembre del 1990 è entrata in vigore la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Convention on the Rights of the Child – CRC) adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Ratificata da ben 196 Paesi – ad eccezione degli Stati Uniti d’America che hanno firmato il trattato senza tuttavia mai ratificarla – questa Convenzione ha avuto il merito di creare un insieme di garanzie minime a tutela dell’infanzia nel mondo compiendo una vera e propria “rivoluzione culturale” riconoscendo il minore non soltanto come oggetto di tutela e assistenza, ma anche come soggetto di diritto, quindi titolare di diritti in prima persona.
Si tratta di un riconoscimento formale dalla portata storica e giuridica senza precedenti: i diritti dei bambini e delle bambine entrano a pieno titolo nel mondo giuridico internazionale.
La Convenzione enuncia alcuni principi fondamentali.
Il principio di non discriminazione (art. 2), coglie la dimensione specifica delle discriminazioni nei confronti dei minori e fra gli stessi, aggiungendo fra i motivi di discriminazione proibiti le attività, opinioni professate o convinzioni dei genitori del minore, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari. I diritti sanciti dalla Convenzione devono essere garantiti a tutti i minori, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione.
In virtù del principio dell’interesse superiore del minore (art. 3), gli Stati devono non solo investire le loro risorse in azioni intese alla realizzazione dei diritti dei minori, ma anche tenere conto delle loro aspettative in ogni azione che possa avere un’incidenza su di loro, applicando misure protettive o più inclusive, in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino o dell’adolescente deve avere la priorità.
Questo principio è strettamente collegato con quello del diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo (art. 6); in particolare, il diritto alla vita assume qui una dimensione parzialmente diversa da quella che riveste negli altri trattati sui diritti umani, poiché richiede che gli Stati assicurino nella misura massima possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del minore. Ogni azione politica, economica e culturale dello Stato non deve accrescere lo sfruttamento e l’abuso dei minori e deve invece rappresentare un’opportunità per favorire il loro sviluppo tanto come minori quanto in prospettiva come future persone adulte.
Infine, il principio fondamentale di partecipazione del minore (art. 12) obbliga gli Stati parte a garantire al minore in grado di esprimere le proprie opinioni, il diritto di esprimerle effettivamente in ogni caso che lo riguardi, compresa la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria e amministrativa che lo concerne. Si tratta di un principio che riflette un passaggio storico importante, la partecipazione dovrebbe essere inclusiva, dovrebbe incoraggiare le opportunità per i minori esclusi di partecipare, tenendo conto della loro età e del loro grado di maturità del loro sviluppo psico emotivo. Prevede il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni.
L’Italia ha ratificato e resa esecutiva la Convenzione con Legge n. 176 del 27 maggio 1991.
Oggi, a 30 anni dall’adozione della Convenzione, si registrano dei progressi significativi sulla condizione dei bambini nel mondo perché molti di loro, in numero maggiore rispetto al passato, hanno avuto accesso all’istruzione e alle cure primarie, tuttavia in molti Paesi permangono le morti infantili, i bambini affetti da malnutrizione, quelli coinvolti in lavori minorili, i matrimoni forzati, le spose bambine e le gravidanze precoci per questo l’incessante lavoro delle istituzioni internazionali svolto sinora deve assolutamente proseguire.