Sovente nei tribunali italiani avviene “confusione” tra violenza e conflitto, motivo per cui molte sentenze sia penali che civili, vengono completamente ribaltate. Questo vuol dire che la donna vittima di violenza, non solo non viene tutelata e difesa rischiando la vita (femminicidi), non solo subisce violenza dall’ex compagno, ex marito, ma anche quella violenza istituzionale, trovandosi catapultata in un sistema che le mette un vero e proprio cappio al collo. Sentenze errate provocano danni irreversibili per i minori, prima vittime di violenza assistita che è già violenza e che può durare anni ed anni e poi vittime di violenza diretta, atteso che nella maggior parte dei casi il minore viene affidato proprio a quel padre ha perpetrato violenza.
Un sistema che gli esperti cercano di debellare e sensibilizzare sia l’opinione pubblica, ma soprattutto coloro che emettono sentenze, molto spesso disapplicando le normative nazionali, sovranazionali, le convenzioni di New York, Istanbul, Strasburgo, le sentenze della Corte di Cassazione.
Per meglio comprendere come le sentenze e decreti possano essere oggettivamente disfunzionali, riporto un estratto di una sentenza inerente un rigetto da parte di un collegio della Corte d’Appello di Roma in cui è evidente la consapevolezza della violenza che viene totalmente ignorata. Il terrore di un figlio nei confronti del padre e, conclude il Collegio, con la soluzione di collocarlo prima in una casa famiglia e poi al padre di cui ha terrore.
Tra le accuse alla mamma e quanto riportato nel decreto figura: “ la difficoltà separativa dalla madre ed il rapporto fusionale, una dimensione unica e fagocitante, una relazione esclusiva a parassitante, il bambino si è mostrato terrorizzato e si è rifiutato di allontanarsi anche solo dal suo letto, che quest’ultimo ha pianto in modo convulso, spaventato e tremante, coprendosi con le coperte, non volendosi allontanare dalla madre e non volendo vedere “quello”, ossia il padre; che ha lamentato forti mal di pancia e nausea, che gli hanno provocato conati di vomito”.
Ed ecco il “pezzo forte”, una vera dichiarazione di violenza nel relazione del tutore “ il minore non si sarebbe allontanato spontaneamente ma solo se sollevato di peso e con l’utilizzo della forza”. Si, avete capito bene, “ solo se sollevato di peso e con l’utilizzo della forza”, mi chiedo non sono efferate violenze ed ai limiti della tortura nei confronti di un minore?
Ed ancora, “la corte premette che il tribunale con il decreto di cui in epigrafe ha disposto il collocamento del minore presso una struttura familiare, all’esito della consulenza tecnica; da ricondurre anche e soprattutto alla difficoltà separativa dalla madre essendo legato in modo fusionale ad essa; conferma quanto emesso in sede di Ctu, lo stato di grave disagio del minore e il suo invischiamento in un conflitto genitoriale in cui la madre ha avuto la possibilità di acquisire l’alleanza del figlio”.
E, quindi, la Corte d’Appello rigetta il rincorso “va confermato il decreto (del giudice minorile) di cui in epigrafe, in quanto l’allontanamento del minore dalla madre appare, l’unico modo per consentire al bambino di liberarsi dalla relazione esclusiva e parassitante che ha con la madre. E’ presente nel minore un conflitto di lealtà che non gli permette di separarsi serenamente”.
Gli esperti si trovano quotidianamente dinnanzi a veri e propri crimini nei confronti di donne e soprattutto dei bambini (basterebbe leggere talune sentenze e decreti per rendersene conto), motivo per cui documentano, propongo soluzioni, agiscono concretamente in tal senso, partecipano a webinar, a conferenze, a confronti, proprio perchè nel nostro ordinamento giuridico qualcosa non funziona, ma soprattutto qualcosa deve cambiare.
Sono importanti e fondamentali questi confronti soprattutto quando avvengono tra persone esperte competenti e anche di buon senso, è la c.d. parte della magistratura che tenta di sensibilizzare l’altra parte che ha una “diversa visione” delle normative.
Arriviamo così al secondo focus del webinar del 6 maggio (primo articolo), organizzato dalle psicologhe promotrici del protocollo Napoli in Campania.
Violenza e conflitto, quando la prima non viene effettivamente collegata con la realtà vissuta e la seconda diventa un alibi per giustificare la violenza dell’uno sull’altro. Sovente le c.d. figure istituzionali tendono a cancellare nettamente la violenza trasformandola in un normale conflitto.
Elvira Reale, responsabile scientifica dell’associazione Salute donna e centro Dafne di Napoli e consulente della commissione parlamentare sul Femminicidio
E allora anche il tema della seconda tornata è intrecciato, cioè diciamo l’istruttoria è andata com’è andata, è stata fatto, non è stata fatta il discrimen, poi magari anche la dottoressa Rosetti ci potrà dire perché non viene fatto questo discrimen tra violenza e conflitto qui a Napoli.
E un’abitudine, perlomeno vediamo, un’abitudine molto discussa di delegare l’istruttoria a un CTU.
Lo chiediamo a voi perché a noi interessa la vostra opinione, a noi interessa come psicologi che hanno individuato al proprio interno una serie di pecche delle procedure psicologiche, rinviare le palla a voi che avete il potere di indirizzare a noi psicologi, quindi a stabilire nuove regole anche per l’arruolamento di CTU. Cioè sta a voi attraverso i quesiti determinare quello che gli psicologi vi devono dire e non farli determinare dagli psicologi quello che quello che loro devono dire come spesso accade. E’ mia esperienza che giudici chiedono allo psicologo prima che cosa vuoi che ti chieda..
Quindi è importante che ci sia una buona delega al CTU e bisogna mettere nel quesito questa benedetta violenza, maltrattamento sulle donne e sui minori, che il quesito lo contenga nel caso che ci sia in atto, quindi un approfondimento della valutazione sulla violenza, sui tipi di violenza, sulle condizioni, sugli esiti della violenza, ci sia nel quesito.
E quindi però questo lo potete fare voi giudici, in qualche modo, è in mano vostra, così come è in mano vostra decidere se porre un tema della genitorialità o della bigenitorialità e così come porre il tema del hic et nunc o della storia, qual è la storia del hic et nunc, è questa che gli psicologi hanno deciso che loro nelle consulenze forensi si attengono a quello che vedono sotto i loro occhi, come se fosse un referto. Anche io nel referto osservo quello che succede come la Rosetti prima lo diceva, quello che succede sotto i miei occhi e qual è lo stato emotivo, questo va bene, è una parte, ma io faccio anche un’anamnesi e mi pare e parlo di un referto, e faccio l’anamnesi della violenza. Quindi che ci sia la storia di questa genitorialità perché l’oggetto del referto è la competenza genitoriale, l’oggetto più macroscopico, quello che interessa l’affido, che ci sia la storia di questa competenza genitoriale; però la dovete chiedere voi che ci sia la storia, perché lo psicologo vi fornisce solo il hic et nunc. Cioè voglio dire un campo diviso a metà, quindi un campo scuro e un campo acceso, e in un campo del licet nunc che cosa succede? che la violenza certo il maltrattante non la mostra sotto i vostri occhi, sarà assolutamente un perbenista, uno che apre la porta alla donna quando scende dall’auto, apre la porta per farle entrare dal CTU, insomma non ci facciamo prendere in giro dal licet nunc, ma valutiamo la storia. Quindi però spetta a voi e spetta a voi anche la storia della bigenitorialità e della genitorialità.
Decidiamo che quando ci sta un sospetto di violenza, degli atti che rimandano la violenza sulle donne e sui minori, la bigenitorialità io direi va in soffitta, ma per carità sarebbe una bestemmia, la mettiamo tra parentesi, perché è chiaro che non può valere un criterio di bigenitorialità cioè di accesso per indicare chi è il genitore più competente, perché è chiaro che la vittima di violenza non ce la fa a stare insieme e a cooperare con il suo torturatore o con l’autore della violenza, è chiaro, quindi non possiamo ricercare la bigenitorialità come elemento per valutare la maggiore competenza in caso di violenza.
C’è un altro tema molto importante che gli psicologi vi stanno prendendo in giro a voi giudici e vi bevete le loro chiamiamo le interpretazioni.
Che significa che vi bevete le loro interpretazioni? che sul tema della violenza loro hanno un’idea molto precisa, una certa psicologia forense che non è il protocollo Napoli, chiariamo bene il protocollo Napoli è quello che fa la critica questa prospettiva; che cosa hanno messo in campo? hanno messo in campo dei costrutti teorici che esistono, ma che non sono da applicare nei contesti, in questi contesti in contesti di violenze. Qual è questo costrutto? è la funzione triadica; il considerare il rapporto madre figlia una funzione diadica simbiotica dei primi anni dello sviluppo del bambino e ci siamo ed è una funzione insostituibile se pensiamo alla gravidanza o alla fase dell’allattamento, etc e poi c’è la funzione triadica benissimo, vi rappresentano questa funzione triadica come essenziale allo sviluppo del minore ed è vero, cioè la funzione triadica significa portare il minore verso l’autonomia attraverso un terzo che interviene nella relazione madre figlio, portare il minore verso l’autonomia e la socializzazione. Ma chi ha detto che questa funzione triadica il terzo deve essere il padre? oggi nella nostra società voglio dire è la comunità è la scuola e quindi la valutazione che ci deve essere per forza un padre perché è l’unico, e questo vi stanno dicendo è l’unico, che dà autonomia e socialità al figlio e senza di quello il bambino diventa patologico è una fake news, è un falso, è un falso ideologico.
Il bambino ha bisogno di socialità, ha bisogno di persone terze oltre la madre ovviamente sennò sarebbe uno psicotico in quella relazione, ma non è detto che questa funzione necessariamente deve essere il padre e in termini di violenza ovviamente non potrà essere il padre, senza che questo comporti il famoso rischio evolutivo in base al quale i minori vengono allontanati, solo dicendo, ho letto 30 di queste CTU, tutte dicono la stessa cosa, un rischio evolutivo futuro per l’assenza del padre che farà mancare la funzione triadica così condannando il bambino alla asocialità e quindi alla patologia, sta a voi non credere a queste bufale.
Francesca Ceroni, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione
Sono rimasta molto impressionata da quello che ho appena detto Elvira Reale, nel senso che come giurista proprio dopo tutto quello che si è detto sull’affidamento condiviso e sul diritto alla bigenitorialità, invece realizzare che la funzione triadica che quella che conduce fuori diciamo dal rapporto intimo tra il bambino e sua madre, non è necessariamente il padre che la debba svolgere e, tuttavia, capisco quello che voglia dire Elvira Reale e però noi abbiamo comunque un sistema normativo che dobbiamo applicare. Quindi per ora c’è la legge del 2006 e che tutti conosciamo che ci impone di disporre l’affidamento condiviso praticamente non dico sempre, ma sicuramente nella stragrande maggioranza di casi.
Anche in quelle ipotesi dove io appunto non sono d’accordo per esempio con la Cassazione quando in alcune pronunce, per fortuna non in tutte dice che, anche in casi di altissima conflittualità si può, anzi si deve disporre l’affidamento condiviso. E secondo me, è proprio un pò un falso storico, forse è una bella rappresentazione di quello che dovrebbe essere la realtà, cioè dei genitori che nonostante la fine della loro storia continuano a essere genitori insieme. Però appunto nei fatti temo che questo non accada quasi mai.
Riprendo poi il discorso che faceva sempre la dottoressa Reale, ma poi anche Fabio Roia ha toccato il tema su quello che è diciamo l’abdicazione della funzione giudiziaria nel momento in cui si investe il consulente tecnico di indagare quella che è la situazione familiare, la condizione del bambino i rapporti del bambino con i genitori. E arriviamo appunto al tema scottante del quesito perché il quesito è la pietra angolare su cui la relazione del tecnico dovrebbe poi poggiare. Quindi se il quesito non è fatto bene, è chiaro che poi la relazione addirittura potrebbe essere fuorviante.
Ora a me pare di dover concentrare l’attenzione nostra sul fatto che la consulenza tecnica in quanto tecnica dovrebbe essere fatta solo su fenomeni “misurabili” ed avere un fondamento scientifico. E a questo proposito io ho richiamato anche in quella requisitoria che è stata citata in apertura, una sentenza della Corte Costituzionale risalente, che però a mio avviso è estremamente attuale, e poi risalente semplicemente perché ha posto veramente una pietra tombale sul relativo, diciamo, un problema che appunto è quello della capacità, possibilità di mettere una persona in totale stato di soggezione, che è quello che viene poi attribuito alle madri in nei casi appunto di “alienazione”, cioè questa capacità manipolatoria delle donne che riescono a ridurre i figli in uno stato di totale soggezione. La Corte Costituzionale a proposito di plagio con la sentenza 96 del dell’ 81, ma dico non è perché poi in realtà il giudice delle leggi ha cambiato idea, è che l’idea è rimasta così centrata e centrale e ferma che non c’è stato più bisogno di ribadirla; cioè che appunto il reato di plagio è stato dichiarato la relativa disposizione illegittima perché l’accertamento del totale stato di soggezione di un soggetto ad un altro, è impossibile da provare.
E allora se questo è vero, io mi domando tante delle nostre consulenze che fine farebbero, il punto probabilmente però è diverso, è che c’è il pregiudizio sul totale stato di soggezione, cioè il CTU va a intervistare la madre, il padre, il bambino già con l’idea che la base di partenza è che la mamma non consente l’accesso, la mamma è ostativa, ha tutti i suoi problemi irrisolti con sè stessa e con il padre e in questo poi ha condizionato il figlio.
Poi ancora vorrei aggiungere un altro dato e cioè che ancora si fa fatica a realizzare che un padre, cioè sicuramente qua parlando tra dei da tre persone insomma che sono specializzate, che sono formate, dirò una banalità, però purtroppo la banalità non è tale per tantissime persone, e cioè ancora molti dicono che un padre violento con la partner, può essere un buon padre. Questo secondo me è invece un mantra che dovrebbe passare che un padre violento non può essere un buon padre, anche perché invece iniziano a esserci in questo le prime pronunce, diciamo in modo abbastanza sistematico e chiaro, per le quali appunto quando parliamo di violenza assistita, parliamo di violenza diretta e, quindi, un bambino che assiste ai maltrattamenti del padre nei confronti della madre, avrà delle cicatrici dirette su di lui da parte di questi appunto comportamenti violenti del padre.
Purtroppo rimane che invece nei processi talvolta le donne, loro stesse dicono, no vabbè ma lui è violento con me ma comunque al bambino gli vuole bene, il bambino gli è attaccato e uno dei più brutti processi che ho visto appunto in Cassazione su questi temi dove, appunto ero sostituto procuratore generale di udienza, di una povera signora che era stata quasi ammazzata, quasi perché era stata picchiata in numerose occasioni poi l’occasione che doveva essere finale il marito l’aveva aspettata fuori dall’ospedale questa signora era una infermiera, l’aveva ridotta quasi in fin di vita; la signora poi era riuscita a salire in macchina e ha provato a scappare, il marito l’ha investita, faceva il camionista col suo camion, l’ha travolta e per essere proprio sicuro di averla ammazzata ha preso una tanica di benzina e ha cosparso la macchina con lei dentro gli ha dato fuoco.
Per fortuna la signora è riuscita, non si sa come a salvarsi, fatto sta che è arrivata fino in Cassazione, dove per fortuna ha trovato il giudice di Berlino che ha accolto il suo ricorso e mi ricordo che con quale angoscia ho concluso di fronte alla Corte di Cassazione, proprio perché poi alla fine non si sa mai come vanno le cose, perché i giudici di primo e di secondo grado avevano ritenuto che comunque un filo sottile di affettività, di emotività, di non so che cosa legasse ancora il bambino che aveva assistito numerose volte alle violenze del padre sulla madre che legasse il bambino a suo padre e, quindi, avevano comunque disposto l’affidamento condiviso e, quindi mi fermerei qua.
Fabio Roia, presidente vicario al Tribunale di Milano
Allora io vorrei che iniziassimo a definire che cos’è conflitto e che cosa violenza, perché credo che ci sia molta confusione forse dovremmo scrivere una norma questo punto, perché negli atti giudiziari anche nelle sentenze, ma anche negli atti degli avvocati, si usa in maniera ipertrofica il termine conflitto anche quando c’è violenza. Allora il conflitto abbiamo provato a definirlo, era proprio Francesca Ceroni, nella scuola Superiore della Magistratura in un incontro che abbiamo fatto noi riteniamo almeno noi perché non c’è una definizione come dire giuridica di che cosa sia conflitto che cosa sia violenza, violenza si, ma si confondono spesso i due temi, tant’è che come ho detto, se voi guardare quante volte scriviamo violenza e quante volte usiamo il termine conflitto, c’è uno sbilanciamento assoluto a favore del secondo termine.
Allora il conflitto presuppone delle situazioni di forza sociale paritetiche fra uomo e donna dal punto di vista culturale, economico, relazionale, professionale retributivo, condizione che nella nostra società non esistono; quindi se ci sono due situazioni di forza paritetiche simmetriche e si inseriscono reciproche attività di violenza si può parlare di conflitto, ma se c’è una asimmetria nei rapporti di forza e si inseriscono fattori di violenza comunque declinata fisica, psicologica economica siamo in presenza sempre di violenza, perché qua si dice che una donna è conflittuale se all’interno di un rapporto sbilanciato sul piano della asimmetria di rapporti di forza, a un certo punto perché stanca di subire violenze, pone in essere una serie di attività giudiziarie, cioè attraverso l’attività giudiziaria finalmente vuole riconoscimento dei suoi diritti e quindi magari denuncia, denuncia più volte, cita l’uomo per un ricorso giudiziale, a questa donna viene detto che è conflittuale e questo rapporto di forza secondario, questa sua iniziativa secondaria rispetto ad un rapporto di forza che ha subito, viene definito conflitto.
E questa, guardate, è una precondizione per ogni tipo di ragionamento successivo perché se non chiariamo le idee su questo tema a questo punto penso che forse dovremmo normarla questa definizione, perché ognuno ha in mente e usa il termine conflitto o violenza a seconda della sua sensibilità, preparazione, empatia, diciamo orientamento culturale.
Quindi, prima considerazione, seconda considerazione la violenza assistita un reato autonomo nel senso che con la legge 19 nel 2019, quella sul codice rosso è stata reintrodotta, la figura della violenza assistita come ipotesi di reato autonomo, ma il minore non è che deve vedere il padre che tenta di accoltellare la madre, per giurisprudenza della Corte di Cassazione penale costante, è sufficiente che il minore respiri, cresca in una situazione di violenza, la percepisca , tant’è che è stata riconosciuta anche un’ipotesi di maltrattamento nei confronti di un neonato di pochi mesi di vita che era esposto a situazioni di violenza, una sentenza molto bella ed evolutiva della Corte di Cassazione penale.
Allora, in sede civile tutto questo non viene considerato, cioè praticamente si riconosce meccanicamente, secondo me, stravolgendo il principio che aveva ispirato la legge sulla bigenitorialità in maniera meccanica il diritto del padre ad essere padre, anche qualora il padre sia autore del reato nei confronti del minore, diretto o indiretto diciamo indiretto per capirci in situazioni di violenza assistita e questa è un’altra aberrazione del sistema.
Terzo punto, allora, io personalmente sono contrario ad una eccessiva, la chiamo così medicalizzazione di tutti i processi, perché in questa forma di medicalizzazione trovo una grande forma di deresponsabilizzazione del giudice, il quale non avendo competenze non essendo preparato, delega surrettiziamente attraverso poi la formulazione di un quesito che in realtà implica un giudizio, non di competenza, ma un giudizio sulla questione, per cui giudice è investito e delega la decisione ad un terzo soggetto. Questo avviene per esempio nel penale quando si chiede surrettiziamente, si valuta la capacità a testimoniare di un minore, per esempio vittima di abuso e si chiede già di valutare l’attendibilità del minore, cosa che è scorretta proprio da un punto di vista dell’interpretazione normativa, oltre che sul piano ovviamente deontologico del giudice; questo ovviamente non deve avvenire poi nei giudizi di separazione.
Io, la CTU, ovviamente non sono un giudice della separazione e quindi parlo per le competenze tipiche di un penalista, la lascerei innanzitutto evitando dei quesiti standard che è una prassi purtroppo adottata dalla sezione del Tribunale di Milano, perché il quesito standard può avere come dire una matrice minimale, perché ogni situazione meriterebbe un quesito specifico per una competenza specifica, di uno psicologo che deve avere un background che il giudice valuta, perché è vero che lo psicologo necessariamente deve essere iscritto all’albo dei CTU, ma lo psicologo si presenta con una sua storia, quindi con una bibliografia per esempio che cita, allora io per esempio uno psicologo che mi cita con tutto il rispetto ovviamente Garner, Gulotta De Cataldo che peraltro è mancata da poco, e quindi mi dispiace, solo una valutazione come dire di natura scientifica, ovviamente conoscendo che ha un certo tipo di approccio sulla PAS e su altre considerazioni di presunta alienazione genitoriale, diversamente qualificate non lo nominerei. Non lo nominerei perché comunque fa capo ad una scuola di pensiero che è stata espulsa dalla comunità scientifica a seguito di decisioni della Corte di Cassazione e a seguito anche per esempio, c’è stata una recente interrogazione fatta al ministro della salute Speranza il quale ha ribadito che la PAS o le declinazioni della PAS devono considerarsi estranee alla comunità scientifica italiana, ma non solo sappiamo anche la fine che ha fatto nella comunità scientifica degli Stati Uniti da dove proveniva.
Quindi per rispondere all’ultimo step di Elvira Reale è sicuramente storia della genitorialità perché qui noi dobbiamo anche conoscere, drenare il fenomeno che io chiamo dei padri retard cioè dei padri che si scoprono genitori nel momento in cui c’è una separazione, dopo aver agito violenza e che utilizzano questo presunto diritto ad essere genitori per controllare la donna, dalla quale non accettano la fine della relazione.
Allora è chiaro che bisogna esplorare, ma questo secondo me lo deve fare comunque il giudice, è un’attività istruttoria che può e deve fare il giudice, come era genitore uno prima della separazione, perché se era un genitore presente a spot che delegava tutto, poi non può pretendere di volere vedere il bambino, di avere rapporti con un bambino che magari non lo vuole, perché ripeto ha in mente un modello di genitore violento in maniera paritetica rispetto alla madre solo per la finalità che non è tanto poi difficile da accertare, da percepire, di controllare la madre attraverso la visita del bambino; creandosi peraltro una condizione di vittimizzazione secondaria nei confronti della madre che magari deve perché altrimenti poi viene fra virgolette sanzionata sul piano della responsabilità genitoriale provvedere al mantenimento di questi rapporti fra figlio e padre. Allora tutte queste sono cose come dire abbastanza semplici, ma che devono essere conosciute e quindi torniamo al tema della specializzazione.
Io per esempio, non darei mai o non mi fiderei mai di una consulenza laddove non sono in grado di controllare, non dico in maniera completa perché altrimenti non farei la consulenza, ma perlomeno nella grammatica iniziale l’attività del perito del consulente tecnico d’ufficio e invece purtroppo si delega la decisione.
Un altro punto su cui invece non sono d’accordo io fossi un consulente con Elvira, se ho capito bene però se io fossi un consulente tecnico d’ufficio, mi rifiuterei di fare un’indagine esplorativa su situazioni di violenza domestica, perché questo è un compito del giudice, cioè l’accertamento di un’eventuale situazione di violenza domestica ai fini delle determinazioni sull’affido esclusivo o super esclusivo, condiviso lo deve fare il giudice; eventualmente avvalendosi dell’esperto, ma non per l’accertamento dei fatti che deve fare il giudice. Eventualmente per l’accertamento delle dinamiche relazionali che presuppongono competenze che il giudice non ha, ma che deve però comunque controllare attraverso per esempio la bibliografia citata dal consulente o per esempio le rappresentazioni che fa il consulente.
Io qui introduco altri due temi, il consulente tecnico d’ufficio non ha un vero e proprio contraddittorio, perché per esempio quello che dicono i CTP vengono come dire, recepiti se vengono recepiti, attraverso il deposito di una bozza finale di consulenza tecnica d’ufficio e poi non c’è mai un vero contraddittorio, questo anche per una questione evidente di tempi, he. Non vi nascondo che uno dei problemi di compressione di tutte queste fasi è l’enorme carico di lavoro dei giudici, però in questa materia evidentemente i giudici devono anche essere messi nelle condizioni di poter lavorare a fondo, perché qui parliamo di storie che riguardano persone nella loro intimità e quindi con tutto rispetto sono procedimenti che meritano un investimento di risorse maggiori rispetto ad altri procedimenti che attengono magari la divisioni di condominio di parti comuni con tutto il rispetto della tutela degli altri diritti ovviamente.
Così come manca, questo l’ha detto molto bene Francesca Ceroni, la figura del pubblico ministero perché io mi immagino il consulente tecnico d’ufficio che tra virgolette ha il coraggio di scrivere delle cose sapendo che non c’è un contraddittorio reale, cioè sapendo che nessuno delle parti gli avvocati CTP, il giudice e aggiungo io il pubblico ministero potranno chiedergli conto di quello che ha scritto, perché voi pensate invece alla prospettiva di un CTU che debba venire in udienza in un contradditorio reale effettivo con due avvocati, due CTP e mettiamoci anche il pubblico ministero addetto agli affari civili che debba spiegare perché per esempio considera una madre alienante, perché considera una madre e in qualche modo autrice della PAS, citando addirittura la PAS, credo che probabilmente sarebbe frenato nel dire delle cose che invece fra virgolette l’ anonimato la protezione della scrittura gli consente di dire e di elaborare.
Valeria Rosetti, giudice della 1° sezione del Tribunale di Napoli
Con riferimento all’ufficio di procura, io volevo rappresentare proprio perché sono stata per tanti anni pubblico ministero minorile che ci vuole una riforma, una riforma radicale, perché, ripeto, io ho lavorato per tanti anni al minorile, e secondo me questo frazionamento di competenze tra il tribunale per i minorenni e il tribunale ordinario, crea anche un disorientamento tra le parti, per gli avvocati e effettivamente il pubblico ministero agli affari civili, non è strutturato ed organizzato, io parlo ovviamente di Napoli, come è organizzato il ministero minorile che ha un rapporto diretto con i servizi sociali. Ha obiettivamente un’organizzazione anche migliore, meglio rispondente proprio rispetto alle funzioni per arrivare a un processo.
Altro problema, con riferimento al discorso che si faceva prima, lo faceva anche prima il presidente Roia, giustamente noi quando abbiamo delle denunce dei procedimenti penali può anche intervenire ovviamente una richiesta di archiviazione così come un’eventuale pronuncia di assoluzione. Noi come i giudici civili dobbiamo anche distinguere ovviamente quella che abbiamo detto la verità che emerge nel nostro giudizio civile e anche considerare se e in che misura la richiesta di archiviazione per insufficienza degli elementi a sostenere l’accusa in giudizio o per infondatezza della prospettazione da parte della vittima, piuttosto che una assoluzione ai sensi del secondo comma, oppure una assoluzione diciamo ai sensi del primo comma del 530, se ben ricordo.
Al di là di questo, con riferimento poi all’istruttoria, abbiamo detto la necessità del ricorso alla CTU, parlo di Napoli perché ovviamente io parlo della realtà che conosco.
Sicuramente i quesiti vanno strutturati diversamente se c’è conflittualità e se c’è violenza perché questi sono termini che assolutamente che non vanno confusi. Purtroppo io registro anche quanti tutt’oggi in molti provvedimenti che vengono quasi utilizzati come se fossero sinonimi lì dove la conflittualità ovviamente ha un carattere di reciprocità, e diciamo così tenuta da entrambe le parti con modalità anche di comunicazione aggressivi, anche finalizzate magari ad innalzare il livello dello scontro, ma non è mai violenza, la violenza è qualcosa in più, ovviamente lì dove c’è un autore della violenza e una vittima della violenza.
La CTU, quindi, ovviamente deve essere l’incarico conferito a mio avviso, fornendo dei quesiti specifici.
Il problema? Io non sempre rilevo praticamente, mai che vengono effettuati i test che sono indicati ad esempio nel protocollo Napoli. Il protocollo Napoli ha indicato tutta una serie di test che sono, diciamo così idonei, per valutare il discrimine tra conflitto e violenza.
Io devo dire la verità nelle consulenze che conferisco questi test non vengono somministrati, si limitano al test di Rorschach, al test dell’albero 2, 3 test, senza però, diciamo, addentrarsi specificamente in questi che voi indicate e o apprendo io perché ovviamente non sono psicologa come dei test specifici per individuare se effettivamente all’interno di quella coppia genitoriale vi sono state delle condotte violente che quindi hanno visto un autore della violenza e una vittima della violenza.
In assenza senza di questi test, a qual è la mia difficoltà? io mi trovo eventualmente una consulenza dove non si parla proprio di violenza, dove io paradossalmente ho un quadro della signora come donna fragile, poco orientata, poco come posso dire, presente a sè stessa da un lato e dall’altro il quadro magari di un uomo, più composto, più maturo, più responsabile perché? proprio perché manca il tassello che mi spiega perché quella donna in quel momento ha questa fragilità, perché una donna che ha stupito ripeto un mobbing familiare, una violenza psicologica protratta è normale è fisiologico che abbia una fragilità in quel momento; ma se mi manca la ricostruzione o comunque, la somministrazione di test adeguati che riconoscano in quella signora gli indici di una violenza anche solo psicologica subita è evidente che l’autorità giudiziaria è come se avesse soltanto una visione parziale, non totale della dinamica familiare che interessa il nucleo in oggetto.
Con riferimento alla storia della genitorialità talvolta le consulenze sono carenti e questo forse può essere anche una responsabilità, perchè sicuramente è importante che il consulente ricostruisca un poco la storia di questa coppia e del perché sia addivenuti in quella determinata situazione.
Noi ci troviamo ovviamente nei casi in cui emerga questa situazione di violenza a dover decidere poi in ordine all’affido.
Il CTU spesso conclude, secondo me andando forse anche al di là di quello che è l’incarico conferito perché non si limita, diciamo, si limita ad una sorta anche di proposta terapeutica di recupero, che sicuramente è doverosa, ma attiene ad un momento successivo, propende solitamente per l’ affido condiviso. Va da sé, a me è capitato in un provvedimento, ovviamente la convenzione di Istanbul ci dice che se c’è una violenza, io devo tenerne conto con riferimento non solo alla modalità di affido, ma devo soprattutto impedire poi che la vittima e l’ abusante possano avere dei contatti di qualunque tipo perché io devo tutelare la vittima e questo ovviamente poi incide nella scelta dell’affido che quantomeno deve essere, se non esclusivo affido condiviso con esercizio disgiunto della responsabilità genitoriale; cioè devono essere adottati a mio avviso una serie di correttivi che tutelino ovviamente la vittima della violenza.
Altro problema banale vi può sembrare pratico, noi quando nominiamo i CTU purtroppo abbiamo un numero ridotto di CTU iscritti all’albo dei consulenti del tribunale di Napoli, un numero di CTU ridotto che noi non abbiamo, che esperienza specifica abbiano con riferimento alla individuazione dei contesti di violenza, di abuso, di maltrattamento. Quindi forse in questo ci vorrebbe una maggiore collaborazione anche nel senso che il CTU che si iscrive all’albo dei consulenti dovrebbe fornire un minimo di curriculum, dovrebbe informare il giudice di quelle che sono essenzialmente, le sue esperienze professionali quand’anche diciamo in maniera, diciamo, così molto pratica, io dico presentandosi proprio nei giorni in cui stiamo in udienza, consegnando un curriculum pro manibus, in modo tale che noi abbiamo contezza del professionista che nominiamo per una vicenda che sicuramente è una vicenda delicatissima da questo punto di vista.
Un’altra questione che ovviamente è importante la questione dell’ascolto.
L’ ascolto del minore e questo lo dico perché ovviamente non è necessario che si faccia una CTU perché in alcuni casi può emergere una situazione già sufficientemente delineata interessando i servizi sociali e procedendo alla fase di ascolto del minore.
Io sono personalmente un giudice chi ascolta sempre i minori, sono anche forse indicata come una che ascolta troppo i minori, perché io sono convinta che nella fisiologia del giudizio il minore ha il diritto di essere sentito, non è un solo un dovere mio, ma è un diritto delle ragazzo e la fase dell’ascolto, ripeto, anche quando non c’è una CTU secondo me, è molto illuminante perché facendo sentire il ragazzo a suo agio vengono rivelati dei particolari, vengono acquisite delle informazioni, per cui l’ ascolto da un giudice che però sia realmente specializzato che non sia un giudice “improvvisato” o comunque che non sia adeguatamente formato nella materia della famiglia, io penso che sia effettivamente un momento fondamentale sostanzialmente per acquisire, diciamo, degli elementi corretti di valutazione.
L’ultimo punto che mi stava a cuore e che ovviamente voi sapete meglio di me, è stato raccomandato più volte dalla Cassazione, devo dire la verità più con pronunce in materia penale che materia civile, è assolutamente il divieto della cosiddetta vittimizzazione secondaria.
Cioè, nel senso che a mio avviso, non si deve assolutamente, l’avevamo già detto prima, dare spazio alle riserve con riferimento a queste denunce di violenza, di maltrattamenti piuttosto che semplicemente di abuso emotivo in ambito familiare perché, ripeto secondo me, la violenza psicologica di cui parla la convenzione di Istanbul è anche l’abuso emotivo psicologico in ambito familiare che non ha un carattere di reciprocità e che, in quanto tale, è ovviamente abuso a tutti gli effetti, quindi violenza psicologica. Non ci si deve mai “interrogare” del perché del ritardo del perché non ha riconosciuto questi segnali che ovviamente vanno visti sempre in un’ottica rigorosa perché vale sicuramente la tutela della bigenitorialità, però nei casi in cui la bigenitorialità non può essere garantita nell’interesse del minore, nell’interesse della vittima di violenza, va da sé che la decisione del tribunale deve essere diversa e, come diceva il presidente Roia, non può essere demandata in toto al consulente tecnico d’ufficio, proprio perché il giudice specializzato ha il dovere di decidere in piena scienza e coscienza, peraltro sono decisioni collegiali nell’interesse del minore in tutti gli elementi che sono emersi nel giudizio”.
Nulla da aggiungere, ma molto c’è da fare.
Al prossimo ed ultimo focus del webinar.
Di Giada Giunti