La Corte Costituzionale, ieri 22 giugno 2021 – preso atto del mancato intervento del legislatore sollecitato con l’ordinanza n. 132 del 2020 – ha dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948) che fa scattare obbligatoriamente, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni insieme al pagamento di una multa.
La Corte Costituzionale, ritorna su questa complessa materia, sollecitando l’intervento del legislatore ad adeguare l’impianto normativo italiano alle garanzie previste a livello sovranazionale.
Come ribadito più volte dalla Corte EDU, infatti, la stampa svolge l’essenziale ruolo di «cane da guardia» della democrazia (sentenza 27 marzo 1996, Goodwin contro Regno Unito), tuttavia, il timore di sanzioni detentive produce, secondo la Corte di Strasburgo, un evidente effetto dissuasivo rispetto all’esercizio della libertà di espressione dei giornalisti, in particolare nello svolgimento della loro attività di inchiesta e di pubblicazione dei risultati delle loro indagini.
La Corte EDU ha precisato che «l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 della Convenzione, soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio (hate speech) o di istigazione alla violenza».
Tali principi sono stati ripresi in due sentenze pronunciate nei confronti dell’Italia (sentenze 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia; 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia, rispetto alle quali ancora pendono i procedimenti di supervisione sull’esecuzione delle sentenze avanti al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa) nelle quali la Corte EDU da un lato ha ritenuto legittima l’affermazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti ma, dall’altro lato, ha ritenuto sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa ovvero cancellata da un provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica.
Con specifico riferimento all’Italia, la Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (Commissione di Venezia) ha evidenziato che la vigente legislazione italiana non sarebbe pienamente in linea con gli standard del Consiglio d’Europa in materia di libertà di espressione, in relazione proprio alla previsione della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa.
Del resto, sappiamo bene quanto sia importante la libertà di manifestazione del pensiero che costituisce – prima ancora che un diritto proclamato dalla CEDU – un diritto fondamentale riconosciuto come «coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione».
Nell’ambito di questo diritto, la libertà di stampa assume un’importanza peculiare, in ragione del suo ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico (sentenza n. 1 del 1981), nel quale al diritto del giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini: «caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie […] in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti ».
Non v’è dubbio pertanto che l’attività giornalistica meriti di essere salvaguardata.
Il punto di equilibrio tra la libertà di “informare” e di “formare” la pubblica opinione svolto dalla stampa e dai media, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro, non può però essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni. Basti pensare, agli effetti di amplificazione dei contenuti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima – in termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata, familiare, sociale, professionale, politica e per tutte le persone a essa affettivamente legate – risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva in passato.
Spetta quindi al legislatore la responsabilità di individuare le complessive strategie sanzionatorie in grado di assicurare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso a sanzioni penali non detentive e a rimedi civilistici riparatori adeguati (come l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare.