Quali siano le ragioni di questa scelta – violenze o dolore o difficoltà economiche e problematiche personali e familiari – occorre fare un passo indietro e sospendere qualsiasi giudizio.
Non tutte le donne riescono ad accogliere la loro maternità, questo è certo.
E a chi sceglie di non abortire e di portare avanti comunque la gravidanza, l’ordinamento assicura di partorire in tutta sicurezza e in segretezza, consentendo di non riconoscere il neonato.
La donna che non riconosce e il neonato sono quindi, a tutti gli effetti, due soggetti di diritto che la legge protegge e tutela.
In Italia infatti, è consentito alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché ne sia assicurata l’assistenza e anche la tutela giuridica.
L’identità della madre rimarrà per sempre segreta.
L’immediata segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni della situazione di abbandono del neonato non riconosciuto, permette l’apertura di un procedimento di adottabilità e la sollecita individuazione di un’idonea coppia adottante. Il neonato vede così garantito il diritto a crescere ed essere educato in famiglia e assume lo status di figlio legittimo dei genitori che lo hanno adottato.
Nella segnalazione e in ogni successiva comunicazione all’autorità giudiziaria, ovviamente, saranno omessi elementi identificativi della madre.
La prima sezione civile della Corte di Cassazione, con ordinanza del 9 agosto 2021, n. 22497, è tornata sul diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini cui si contrappone il diritto all’anonimato esercitato dalla madre naturale al momento del parto.
Il nostro legislatore ha scelto di tutelare senza limitazioni il diritto all’anonimato della madre, in quanto veniva precluso a chiunque e, quindi, anche al figlio, di accedere alle informazioni riguardanti la propria origine, e stabilita, altresì, l’impossibilità di chiedere il rilascio del certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, comprensivi dei dati personali della madre, se non trascorsi cento anni dalla formazione dello stesso documento.
A livello sovranazionale tuttavia, la Corte di Strasburgo, con sentenza del 25 settembre 2012 [Godelli c. Italia, sulla scia della sentenza Odièvre c. Francia n. 42326 del 13 febbraio 2003] pur non negando il diritto della donna di partorire nell’anonimato ha criticato la legislazione italiana nella parte in cui non prevedeva un meccanismo di conoscenza delle proprie origini biologiche da parte del figlio, al fine di bilanciare due opposti interessi, entrambi meritevoli di tutela.
Ciò faceva sì che la normativa italiana fosse in contrasto con l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui è sancito il «rispetto della vita privata e familiare», che si declina nel rispetto all’identità personale intesa anche come possibilità di conoscere le proprie origini o, almeno, di acquisire informazioni ad esse relative.
In effetti, il diritto alla conoscenza biologica delle proprie origini segue una logica anzitutto identitaria, rappresentando quello all’identità personale un diritto fondamentale riconosciuto a ciascun essere umano, ma può nascere anche da un bisogno di salvaguardia della salute e della vita del richiedente, sotteso alla necessità di individuare, ad esempio, particolari patologie di tipo genetico, per le quali sia necessaria un’anamnesi familiare.
Con l’ordinanza del 9 agosto 2021, la Corte di Cassazione da un lato ha ribadito, in linea con la sentenza delle Sezioni Unite della S.C. n. 1946 del 2017, che il diritto a conoscere l’identità della madre deve essere contemperato con la persistenza della volontà di questa di rimanere anonima e deve essere esercitato secondo modalità che ne proteggano la dignità, tenendo dunque in considerazione la salute della donna e la sua condizione personale e familiare (nella fattispecie, è stata così confermata la sentenza di merito che aveva escluso il diritto del figlio a conoscere l’identità della propria madre, in quanto la donna era in età molto avanzata e versava in gravi condizioni di salute anche psichica); dall’altro lato, la Corte ha precisato che tale diritto va tenuto distinto da quello ad accedere alle informazioni sanitarie sulla salute della madre, al fine di accertare la sussistenza di eventuali malattie ereditarie trasmissibili, che può essere esercitato indipendentemente dalla volontà della donna e anche prima della sua morte, purché ne sia garantito l’anonimato “erga omnes”, anche dunque nei confronti del figlio.