Musica da Camera, canto, Tango e grandi Opere liriche, la nota cantante argentina Ivanna Speranza si racconta a cuore aperto.
Come è nato il suo amore per il canto e per la musica?
“Canto da quando avevo tre anni. Non ho un ricordo di me senza la musica perché la musica era dentro di me anche in quei pochi momenti in cui non cantavo. Non ho mai dimenticato la sensazione di urgenza che provai quando mio padre voleva io aspettassi ad avere cinque anni per imparare a suonare la chitarra. Non potendo aspettare imparai da sola, da autodidatta, inventando accordi con diteggiature impossibili ma che mi servirono per accompagnarmi e creare le mie proprie canzoni. Non andavo ancora all’asilo dunque le mie uscite erano poche; cantavo quando mi portavano in autobus a casa di mia nonna, sulle ginocchia di mia madre. Cantavo forte e sentivo già di voler cantare per la gente.
Sucessivamente cantavo a scuola dirigendo dal tempo delle medie il coro della chiesa. Durante il liceo una maestra mi ascoltò con attenzione e mi consigliò di intrapprendere gli studi in conservatorio. Frequentando il secondo anno della classe di canto, per mia iniziativa mi presentai alle audizioni nel teatro principale della città di Cordoba: con grande sorpresa mi proposero di debuttare come solista nell’opera L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti. Avevo vent’anni.”
Ha scelto di vivere in Italia. Scelta difficile o necessaria?
“Difficile quanto necessaria! Difficile perché ero molto giovane e lasciavo tuttò ciò che conoscevo senza alcuna certezza. Nessuno della mia famiglia poteva accompagnarmi e non avevo delle vere conoscenze in Europa che potessero accogliere e sostenere il mio arrivo in Italia. Erano oltretutto periodi precedenti a quelli dei social e la comunicazione tra i due continenti non era quella di oggi. Necessario invece perché avevo dimostrato da sempre uno spirito curioso e aperto. Avevo un bisogno profondo d’imparare ed, evidentemente nell’animo, una forza particolare da assecondare.
Bussai la porta del Maestro di Luciano Pavarotti, Arrigo Pola. Non poteva ascoltarmi a quell’ora ma non me ne andai e rimasi a guardare la finestra di casa sua al buio, d’inverno. La mia tenacia fece aprire quella porta e con il denaro che avevo conservato del mio debutto a Cordoba comperai la mia prima valigia verde perché lui chiamò mio padre e gli chiese di lasciarmi andar via.”
Lei si può definire un soprano belcantista ma sono molti i repertori e le tessiture che affronta. Le viene facile e naturale tutta questa duttilità?
“Penso che la duttilità sia stata una scoperta e non una ricerca e, soprattutto i primi tempi, un piccolo “grattacapo” per molti insegnanti. Al Colon di Buenos Aires durante una masterclass, e più tardi a Berlino, mi avevano classificato mezzosoprano di coloratura. Le prime arie che studiai furono da mezzosoprano. Con lo studio conquistai anche il registro acuto e sopracuto e diventai a tutti gli effetti un soprano e finii audizionando per Riccardo Muti con la Regina della Notte.
Attualmente la mia versatilità e una finestra vasta verso le mie passioni e quelle degli altri. Mi piace pensare che più che un mestiere vivo una devozione costante e che l’unico mio obbligo, o responsabilità primordiale, sia quello di essere vera e autentica nelle mie scelte come lo ero anche a 4 anni. Quella era la mia natura e se si segue con consapevolezza la propria natura e la si nutre con lo studio, il confronto e l’autocritica, penso non si possa trovare guida migliore. Glielo dobbiamo alla gente e all’universo che ci permette ancora di essere qui.”
Lei ha cantato in tutto il mondo. C’è un posto in particolare, che le è rimasto nel cuore, dove tornerebbe ad esibirsi?
“E’ vero che ho potuto cantare in tutte le latitudini ed in tutti i cinque continenti, ed in contesti molto diversi fra loro. Mi è rimasta nel cuore un’isola in Giappone dove il primo concerto lirico della storia fu il mio. L’isola si chiama Iki; tanti dei loro abitanti non avevano mai visto i tratti occidentali da vicino ed erano in imbarazzo. Mi è rimasta nel cuore l’innocenza vera, la curiosità pura, il senso di gratitudine, l’umiltà che ho imparato io nel constatare che quello a cui avevo dedicato la mia vita potesse essere sconosciuto totalmente per qualcuno. Mi sono sentita piccola e grande in egual misura ed è stato meraviglioso. Rimane sempre anche nel mio cuore il ricordo dell’austerità di Buenos Aires alla mia prima Traviata in contrasto con la semplicità di qualche Ave Maria cantato nel battesimo più umile e toccante nel Norte argentino. Ciò che è rimasto nel cuore non è stata una performance in particolare, anche se ho affiancato nomi quali Josè Carreras per esempio a Singapore o altri in luoghi rinomati: mi emozionano quei ricordi in cui ho sentito che grazie alla musica diventavo una persona migliore. Ho pregato sempre di meritarlo.”
In questi tempi difficili di pandemia il settore dello spettacolo è stato molto colpito. Come ha vissuto e sta vivendo tutto questo e quanto sta influenzando la sua carriera?
“La lontananza dalla mia famiglia e la paura delle loro condizioni è prevalsa tra le altre crepe inferte da questa pandemia, specie nel nostro settore lavorativo.
Ho voluto rimanere integra e lavorare. Ho donato lezioni anche in Africa. Sono andata nelle case di riposo a cantare per gli anziani, alcune volte isolati anche dietro a una finestra. Ho fatto un disco. Mi sono aggrappata alla vita, piena di speranza e di volontà.”
Cosa ci dice del suo nuovo e bellissimo album?
“Come per gli altri due album precedenti come solista, anche quest’ultimo è stato fatto per amore. Nel primo, dedicato al repertorio virtuosistico, avevo voluto mettermi in gioco con pagine molto ardue; nel secondo avevo scelto romanze di melodia squisita ed era stato dedicato a Tosti; il terzo e ultimo è stato ricongiungere “le due Ivanne” dentro di me e di farle dialogare: quella argentina e quella italiana.
Il belcanto era dall’inizio lo sprone ed il veicolo. Cambia il fraseggio nel passaggio tra la musica da camera europea al Tango. Un fraseggio che contiene elementi ben definiti e da cui non si può prescincere nel genere. Bisogna conoscerli e metabolizzarli fino a renderli naturali e linguaggio proprio. La mia famiglia, italiana d’origine, una volta trasferitasi a Cordoba ballava il Tango in tutte le feste – a vent’anni come a settanta-. Porto nel dna la passione dei nonni e del loro amore nato su una pista da ballo.
Il mondo era incerto sul futuro nel 2020, in pieno confinamento, non c’erano ancora i vaccini quando abbiamo inciso il disco. Se mi avessero chiesto come succede ai mondiali di calcio “per chi tifi?” io sono italo-argentina e le mie vene pulsano in Puccini come in una zamba di Atahualpa. Davanti all’incognita mondiale di gente che moriva anche per strada in molti paesi del mondo, io ho voluto cantare ciò che pulsava nel mio cuore, per sentirlo pulsare e perché pulsasse per sempre.”
Andrea Calandra