Scandisco i vostri nomi di donne, nate femmine, e mi genufletto davanti a Voi per avervi conosciuto ed aver osservato i vostri comportamenti superiori fuori dalla prigione di appartenenza al genere.
MI inchino per le offese subite e per l’oltraggio al vostro essere persone, per la violenza dell’indegno linguaggio che siete state costrette a sentire, per essere state sopraffatte da una folla incolore e priva di galateo, che pronuncia grammatiche distorte dall’ignoranza dei loro sedicenti saperi, capaci solo di balbettare frasi ripetute come in una catena di montaggio inquinate dalla regola dell’abitudinario, dove tutto è uguale e tutto è falso.
Mi inchino per l’affronto al Vostro superiore lignaggio esistenziale sfregiato da personaggi che occupano abusivamente la linea di comando del Paese Italia e vi hanno causato afflizioni e disagi.
Mi inchino per essere stato inerte, pensando di non avere responsabilità per aver scelto di essere il signor nessuno, che osserva di lato le vicende umane del suo tempo e si giustifica affermando di non essere e di non voler essere un concorrente, di quelli che fanno carriera, che percorrono sentieri opachi ed infedeli per salire in cima da dove si domina il paesaggio dei semplici, dei diseredati, degli umili, degli ultimi, degli indifesi, dei figli di un Dio minore.
Mi inchino per aver pensato che, in assenza di cariche e ruoli istituzionali, di posizioni di vertice nella categoria professionale, come di funzioni genitoriali, per aver scelto di non essere padre, posso sostenere di non avere colpe, di non aver eseguito compiti con negligenza e disattenzione, per essere immune da veri e propri crimini verso gli altri.
Le Vostre storie personali mi hanno dimostrato che invece sono colpevole, colpevole di inerzia, di gaudente indifferenza, colpevole di non appartenenza alla comunità di appartenenza, colpevole di indifendibile volontario isolamento, colpevole di essere gloriosamente un suddito modello o cercare di esserlo, colpevole di sopire l’indignazione verso gli orrori quotidianamente osservati da una finestra con i vetri offuscati, colpevole di aver timore di commettere un atto estremo che possa squarciare l’assordante silenzio sull’inferno del massacro degli innocenti, sul vilipendio alla conservazione umana, sullo sfregio alla sacralità della nascita, sull’oltraggio al mito del bambino, sulle lacerazioni alla santificazione della donna, nata femmina e madre universale, alla quale anche i potenti si devono inginocchiare.
Ma la decapitazione della mia immobilità è generata in superiore esplosione di azione alla vista di lacrime di sangue che segnano il volto soave dei figli d’Italia, feriti dall’ignavia e dal disprezzo di soggetti con le insegne del comando. L’agire impetuoso deriva dall’essere colpevole per omissione di soccorso e condannabile a fine pena mai.
A Voi donne, nate femmine, dedico queste pagine traboccanti da quel poco che ho imparato dai grandi pensatori del passato e che rappresentano solo in parte la struttura del pensiero universale che alimenta il cammino dei popoli per incerti orizzonti su territori lussureggianti ed animati sovente conquistati dal deserto del dominio e dall’ansia del potere. Un invito a superare ogni migliore aspettativa per essere credibile e per aggravare la sanzione da patire per la mancata esecuzione del compito dovuto alla comunità di adesione che comporta la punizione più afflittiva.
A Voi e per Voi abbandono l’approdo sicuro dell’ovvio, l’ancoraggio del pressappoco, al molo dell’indistinto, della drammaticità dell’inutile, aspettando Godot, all’apparentemente vuoto all’estremamente essenziale, all’ambiguità delle interpretazioni, al linguaggio inessenziale del diritto, alle battute incaute, ai gesti volgari, alle ripetizioni noiose, all’ironia amara, lasciando l’incontinente dubbio che porta all’immobilismo, al controverso se ridere o piangere. Una contingenza cancerogena che continua ad essere apprezzata, così assurda e spoglia da raccontarci sempre qualcosa di noi stessi. Come quelle coordinate politiche che volutamente deragliano l’orientamento delle genti, che annunciano sempre il nuovo o il cambiamento e l’orologio reste fermo sullo zero.
Voi donne senza macchia e senza paura ricordate le tante storie di morte tutte uguali e tutte diverse dove i terroristi dell’amore non si limitano ad usare per anni il corpo e sentimenti più intimi di figli e madri, secondo il proprio volere, ma sfregiano l’anima con segni indelebili, somministrando il veleno dell’odio, per condannare le vittime all’ergastolo del dolore e della sofferenza, per negare la loro dignità come persone.
E la tortura cresce quando l’afflizione apre la porta della giustizia, quando entra nel mondo lugubre ed opaco dei tribunali, dove anche la speranza compie il suo viaggio verso la morte.
Vengono addebitati torti non composti, vengono sopportati invendicati insulti, vengono citati falsi testimoni ai tribunali della menzogna dove l’ineccepibile retorica annulla il trionfo dell’innocenza sacrificata e dà ingresso agli spergiuri. Al povero come al ricco l’ingiustizia infonde ferite, che non si cicatrizzeranno mai, e angosce che conducono gli animi alla rivolta. Le vittime registrano nel barometro spirituale la necessità del sacrificio sull’altare dell’ingiustizia.
Nell’osservatorio del pensiero solo un atto eroico può salvare figli e madri dal martirio, solo l’infinito, eterno, amore di una mamma può travolgere l’ulteriore supplizio che subisce per l’insipienza e l’arroganza del giudicante che appare devastare la vita dei deboli e degli oppressi, per la vastità della superba ingiustizia.
Nascere può essere doloroso come morire. I dannati hanno cercato rifugio, lontano dallo sguardo ipocrita del pubblico, della gente comune che vive di odio, di maldicenza, di giudizi affrettati. I dannati hanno abdicato con umiltà ad ogni diritto di comunanza con la grande famiglia umana, in gran parte indegna di rispetto. I dannati hanno annullato le ore del sonno, hanno sentito l’ansia salire vigorosa per l’intensità di un ingiusto dolore. I farisei hanno soffocato l’esplosione di un grido e di un soprassalto del corpo che porta alla più violenta liberazione. I farisei hanno dovuto ignorare la conoscenza della natura umana lontana dai buoni sentimenti, dalla franchezza di essere con gli altri. Quelli che giudicano sono un santuario di maldicente lussuria, di impagabile indifferenza, di assenza di grazia e decenza. Gente famelica, irriducibilmente ipocrita che si ammanta di saperi sconosciuti, geneticamente votata al tradimento, alla congiura, all’inganno. Un deplorevole sentimento di falso amore per l’altro, la mendace icona del bene comune. I dannati sono caduti in uno stato di prostrazione senza rimedio con il cuore vinto dal ricordo. Nessuna tenera creatura ha teso loro la mano della salvezza per risorgere dall’oltraggio e dall’ingiustizia di quelli che emettono giudizi e sono sopraffatti dalle loro luride e indicibili manifestazioni, occultate alla conoscenza di quelli con i quali vivono. I dannati hanno sperato di svegliarsi per ascoltare un messaggio autentico di pace, di remissione dei loro peccati e di finale conciliazione, ma ancora una volta sono stati ingannati.
La razza umana conosce fortune episodiche. Una di queste episodiche fortune è la nascita di un figlio, una creatura che conosce l’essenza della bellezza e quando il nato vede la luce all’inizio non c’è un bambino ma la diade figlio madre, quello che la scienza indica come attaccamento, che gioca un ruolo fondamentale nella formazione dell’identità del sé del nato. Quando la madre scrive, osserva, canta, dipinge, lavora, parla, si rivolge, con sconsolata disillusione, a un pubblico che non ha volto e non ha colore, cercando disperatamente di riconoscere i suoi simili. L’esperienza insegna che le cose della terra hanno breve durata e la realtà è sogno e speranza ed occorre il coraggio di saperlo.
Uno spazio sovrano ed autonomo domina e campeggia sulla vita di tutti i giorni, dove regna la regola dell’insulto dei filistei, dei conformisti criminali che “istituzionalmente” sono chiamati a giudicare gli altri. Personaggi ubiquitari, privi di una identità sociale ben definita, consegnano i loro giudizi, trasformando in realtà gli oggetti delle loro fantasie: simbiotico, alienante, ossessivo, apprensivo, indifferente, distaccato, non affettuoso, severo, assente emotivamente, insensibile, nevrotico, narcisistico, megalomane, autoritario, carente affettivamente, depresso, emotivo, edipico, egocentrico, frustrato, fobico, insufficiente mentalmente, inibito, introverso, ipocondriaco, isterico, logorroico, mitomane, oligofrenico, paranoico, psicotico, regressivo, umorale ecc. Parole inadeguate inidonee a capire la realtà umana. Incapaci di padroneggiare una certa astinenza al fine di essere utili, una capacità indomabile di fantasticare dovuta ad un delirio di onnipotenza: ambito familiare antievolutivo, condizione psicofisica, qualità della relazione, elementi di personalità che configurano profili psicopatologici, bisogni psico-evolutivi ed altre stregonerie capaci di minacciose accuse, rilucenti debolezze. Sofferenze inutili che costringono a volte a cercare sollievo nella fonte stessa del male.