La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), con sentenza del 16 giugno 2022, ha condannato nuovamente l’Italia.
Una cittadina italiana ha rappresentato alla Corte di aver subito violenze domestiche ad opera del marito a partire dalla loro separazione avvenuta nel 2013.
La donna ha sporto sette denunce tra novembre 2015 e dicembre 2019, nelle quali riferiva maltrattamenti, minacce, violenze fisiche e verbali, molestie, maltrattamenti sui figli e ingerenze nella propria sfera privata poiché il marito aveva posizionato dei dispositivi di registrazione nella casa familiare, si era intromesso illegalmente nella sua vita privata, le aveva rubato la posta.
Alcune delle denunce presentate dalla ricorrente non sono state prese in considerazione perché i pubblici ministeri hanno riscontrato che non erano sufficientemente dettagliate o che le sue dichiarazioni non erano sufficientemente affidabili.
Il marito è stato rinviato a giudizio solo per aver colpito la ricorrente con un casco da motociclista, provocandole lividi e una distorsione; la prima udienza si è tenuta ad aprile 2021.
Dal 2016 pende un procedimento per mancata corresponsione degli alimenti nei confronti dell’uomo.
Inoltre, nel procedimento civile per la separazione giudiziale del 2018, anche i servizi sociali hanno sporto denuncia, affermando che i bambini erano in pericolo.
La segnalazione è stata aggiunta al fascicolo di un’indagine in corso per reati di furto, diffamazione e mancato rispetto di un’ingiunzione del tribunale in merito al mancato pagamento degli alimenti, ma non è stata condotta alcuna indagine sul reato di maltrattamenti presumibilmente commessi ai danni dei bambini.
Basandosi sull’art. 3 (Proibizione della tortura) della Convenzione, la ricorrente ha affermato che le autorità italiane sono state più volte allertate in merito ai maltrattamenti subiti dal marito ma non hanno adottato misure adeguate e appropriate per proteggere lei e i suoi figli, non riuscendo a prevenire ulteriori episodi di violenza domestica.
La Corte Europea ha rilevato che i maltrattamenti subiti dalla ricorrente e dai suoi figli sono stati documentati dai carabinieri e dall’ospedale.
Il comportamento minaccioso del marito ha fatto sì che la donna vivesse nel timore di subire ulteriori e ripetute violenze per un lungo periodo, come attestano le varie denunce e richieste di protezione rivolte alle autorità giudiziarie.
Tuttavia, l’atteggiamento delle autorità, che hanno considerato la situazione come un conflitto tipico caratteristico di alcune separazioni e non hanno offerto alcuna protezione alla ricorrente, ha contribuito ad aggravare i sentimenti di ansia e impotenza che la donna ha provato a causa dei maltrattamenti subiti.
I giudici di Strasburgo hanno rilevato che il quadro giuridico italiano è complessivamente adeguato a garantire una tutela contro atti di violenza da parte di privati. Inoltre, le misure legali e operative disponibili forniscono alle autorità competenti una gamma sufficiente di strumenti di protezione, che sarebbero stati adeguati e proporzionati al livello di rischio posto dal caso di specie. Sebbene i carabinieri abbiano svolto un’autonoma, proattiva e completa valutazione del rischio, tenendo debitamente conto del particolare contesto dei casi di violenza domestica, e abbiano chiesto misure di tutela alla luce di un rischio reale e immediato per la vita della ricorrente e dei suoi figli, i pubblici ministeri incaricati non hanno mostrato la speciale diligenza richiesta nella risposta immediata alle accuse di violenza domestica addotte dalla ricorrente.
È emerso, infatti, che i rischi di reiterazione della violenza non sono stati adeguatamente valutati o presi in considerazione: tale inerzia ha creato una situazione di impunità che ha portato ad una escalation di violenze domestiche.