La prima sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), con sentenza del 14 aprile 2022, ha riscontrato una violazione dell’art. 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che tutela il diritto alla vita, da parte dell’Italia.
Il caso ha riguardato l’eccessiva durata di un procedimento civile avviato in Italia al fine di ottenere il risarcimento del danno subito a causa di infezioni post-trasfusionali, da cui è derivato il decesso del paziente nel 2016. Gli eredi, costituiti dinnanzi alla Corte Europea nel 2021, hanno allora invocato l’art. 2 della Convenzione – in cui è stabilito che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge […]” – lamentando l’eccessiva durata del procedimento (12 anni e 4 mesi per due gradi di giudizio) avviato per ottenere il risarcimento del danno subito dal loro de cuius.
Le autorità italiane hanno affermato che gli eredi del ricorrente si sono costituiti tardivamente nel procedimento dinanzi alla Corte e che avrebbero dovuto manifestare il loro interesse a perseguirli entro sei mesi dalla data della morte del loro parente, ritenendo che non fosse più giustificato continuare l’esame del ricorso, ai sensi dell’art. 37, comma 1, lett. c della Convenzione (“in ogni momento della procedura, la Corte può decidere di cancellare un ricorso dal ruolo quando le circostanze permettono di concludere: […] (c) che per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l’esistenza, la prosecuzione dell’esame del ricorso non sia più giustificata”).
Tuttavia, gli eredi del ricorrente hanno contestano tale posizione, riaffermando il loro interesse a proseguire il procedimento e sostenendo di non essere stati a conoscenza dell’esistenza dell’istanza presentata dal loro parente fino al momento della sua comunicazione.
Preliminarmente, la Corte EDU ha osservato che il trascorrere del tempo tra la morte del ricorrente e la costituzione in giudizio dei suoi eredi non può, di per sé, implicare una mancanza di interesse da parte loro nel perseguire il ricorso dinanzi alla stessa (cfr. Garbuz c. Ucraina, n. 72681/10, §§ 27-30, 19 febbraio 2019). Pertanto, ritenendo che il ricorso non fosse manifestamente infondato o irricevibile, la CEDU lo ha dichiarato ricevibile.
Richiamando le sentenze rese nei casi G.N. e altri c. Italia, n. 43134/05, 1° dicembre 2009 e D.A. e altri c. Italia, n.68060/12 + 18, 14 gennaio 2016, i giudici di Strasburgo hanno sottolineato di aver già accertato una violazione analoga a quella del caso di specie e, dopo aver esaminato tutte le prove sottoposte alla loro attenzione, non hanno rilevato alcun fatto o argomento idoneo a convincerli dell’infondatezza del ricorso.
Vista la propria giurisprudenza in materia, la Corte Europea ha quindi affermato che la durata del procedimento in questione è stata eccessiva e che le autorità italiane, dinanzi ad una censura fondata sull’art. 2 della Convenzione, non hanno fornito una risposta adeguata e tempestiva rispetto degli obblighi procedurali derivanti da tale disposizione, violandola. In definitiva, l’Italia è stata condannata al pagamento di 20.000 euro a titolo di danno morale in favore degli eredi del ricorrente.