“Oggi l’Europa è priva di una guida politica rappresentativa dei popoli che la abitano” (pag. 73). Sia produzione che rappresentanza si sono delocalizzate. La premessa tematica di Francesco Petrocchi parte d qui. E sempre da qui la necessità di riprendere il percorso dell’autenticità. Quello che hanno percorso i diversi popoli d’Europa, confliggendo, ma anche trovandosi in un disegno più vasto che contraddistingue un senso di identità mai venuto meno anche nei momenti più bui.
Nello scritto sempre veloce sebbene con forti sintesi letterarie, l’avvocato cassazionista esce da diallele del giureconsulto per fondersi con efficacissima sintesi in percorsi che affrontano i fondamentali nodi concettuali sui quali si fonda l’idea d’Europa.
Ciascuno dei sette capitoli segna una tappa fondamentale del percorso che parte dalla terra d’Europa per tornarci ma con un senso di appartenenza nuovo, ma forse potremmo dire meglio: un senso di estraneità abbandonato perché oggi – la tesi di Petrocchi – la crisi del progetto Europa consiste solo nel fallimento dell’utopia liberal comunista. Sì, proprio così. L’idea non è nuova. Riprende la concezione che sia capitalismo che comunismo erano due volti dello stesso materialismo in cui cambiava solo il tifo per la classe sociale data per vincente. Le macerie di questo conflitto oggi hanno creato il “politicamente corretto”. Un condensato di pastoie derivate dalla necessità di istituire paletti, stabilire confini ideologici, costruire un’etica artificiosa del bene e del male nella quale riconoscere solo sé stessi. La diversità, in tutti i sensi, assunta come feticcio deve servire a strumento per eliminare idee le cui origini si fondano sul sentirsi popolo, sul riconoscimento del proprio valore, sulla necessità di affermare i propri meriti.
Il percorso di fondazione dell’Europa ha guardato invece a un pensiero tecnico. Ha teso ad annullare le diversità inevitabili tra i popoli che ne fanno parte, per il riconoscimento in regolamentazioni sempre più astruse ma cogenti. Nasce da qui l’innaturale – per noi italiani – misura di cosiddetta liberalizzazione dei contratti dei balneari. Lo stesso vale per l’obbligo di realizzare i cappotti termici alle abitazioni che per un popolo possessore di case all’ottantacinque per cento significa una sanzione a volte impossibile da sopportare… Regolazioni nei quali gli italiani si sono vissuti come succubi di un processo più grande perdendo così ogni sovranità.
Ed è uno stato di cose sui quali molti condividono. Il riferimento è a Sabino Cassese per confermare il dato da tutti acclarato per cui “il processo di piena rappresentanza dei popoli non si è ancora compiuto” (pag. 74). Ma il fallimento di questo Europa si è rilevato anche nella lentezza e farraginosità delle decisioni. Esempio ne è lla delineazione del price cup sul gas dove l’Europa ha cincischiato prima di porsi come unico soggetto referente per l’acquisto del gas. Ma questo è avvenuto perché la Germania cercava una propria via per addivenire ad accordi che la favorissero.
Ciò è dovuto al fatto che il governo lento dell’Unione guarda più alle imprese che ai popoli per il motivo generativo della sua fondazione: evitare la fuga di grandi attività dall’Europa. In cerca di nuove aree dove produrre con minori costi le imprese sono il riferimento dei governi più che la gente concreta (pag, 75). Le conseguenze devastanti sono a conoscenza di tutti.
Di qui la necessità di ripensarsi, ciascuno di noi, come cittadini d’Europa. Ma abbracciando il senso dell’identità che finora è rimasto sopito dall’egida di regolamentazioni astratte.
Francesco Petrocchi, Un’altra Europa, editore Giubilei Regnani, 2013, pagg.149