Lunedì 13 novembre alle prime ore del nuovo giorno la piccola Indi Gregory ha interrotto la sua sofferenza che si portava dalla nascita. Sono stati staccati i macchinari che la tenevano in vita, ma non è detto sia finita la lotta che i genitori hanno ingaggiato con le autorità inglesi per avere il diritto di portarla a casa e, ancor prima, di accendere una speranza consegnandola alle cure dell’istituto del Bambin Gesù. È morta perché nata con una grave patologia mitocondriale.
La concessione della cittadinanza per il trasferimento all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma era servita per togliere la bambina dalle prerogative della giurisdizione inglese e tentare una strada nell’ospedale romano. Non si vagheggiavano soluzioni miracolistiche però potevano essere allungato il corso della vita e magari attendere per l’innovazione della ricerca. Inizia la battaglia legale ma venerdì arriva la disposizione affinché si fermino i trattamenti che tengono in vita la piccola. Le corti del Regno Unito dispongono il trasferimento in un hospice. Tutta irremovibilità delle autorità Oltremanica è giustificata dall’ideologia tesa ad affermare l’eutanasia come pratica laica e civile finalizzata ad evitare sofferenze assurde perché destinate all’inevitabile fine.
Non si dà pace il padre della piccola: “Mia figlia è morta, la mia vita è finita all’1.45”., dice il papà a La Press. E incalza contro i connazionali: “Il servizio sanitario nazionale e i tribunali non solo le hanno tolto la possibilità di vivere, ma le hanno tolto anche la dignità di morire nella sua casa. Sono riusciti a prendere il corpo e la dignità di Indi, ma non potranno mai prendere la sua anima”.
Tuona anche l’associazione Pro Vita e Famiglia e affida all’ex Twitter X la comunicazione ufficiale: “La bimba inglese è stata uccisa, ‘nel suo miglior interesse’, da un sistema sanitario e legale impregnato di barbara cultura eutanasica, che ha rifiutato anche solo di tentare la differente proposta clinica dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma soffocando l’amore dei suoi genitori nelle aule di tribunale”.
La bambina era ricoverata presso terapia intensiva pediatrica del Queen’s Medical Center di Nottingham. Era affetta da una malattia genetica degenerativa. L’effetto è quello di impedire ai muscoli la loro naturale evoluzione. Per tanto le autorità giudiziarie inglesi, seguendo il loro codice, avevano sentenziato che, in considerazione i report sanitari, nel “migliore interesse” della bambina, si dovessero staccare i supporti vitali. Era il 6 novembre. Quindi la disponibilità del Bambin Gesù di Roma, la concessione straordinaria del governo italiano della cittadinanza tanto da consentirle il ricovero in questo ospedale ma anche il conflitto di giurisdizione sollevato dall’Alta Corte di Londra, quindi la decisione dei medici inglesi di “staccare la spina”.
Era intervenuto allora anche l’appello alla Corte inglese facendo riferimento alla Convenzione dell’ Aja. Ma senza risultato. La risposta è stata che sono i tribunali inglesi nella posizione migliore per valutare “l’interesse superiore” della bambina.