Il 25 dicembre, data carica di simbolismo religioso, si è trasformato quest’anno in un ulteriore capitolo del tragico conflitto ucraino, segnato da un’escalation di violenza senza precedenti.
Mentre l’Occidente celebrava la nascita di Cristo, l’Ucraina subiva il tredicesimo attacco missilistico russo contro le sue infrastrutture energetiche, un atto di barbarie che ha lasciato mezzo milione di persone a Kharkiv senza riscaldamento nel gelo invernale. La scelta di Zelensky di celebrare il Natale ortodosso il 25 dicembre, in rottura con la tradizione russa, si legge come un’ulteriore affermazione di identità nazionale e di distacco dall’influenza moscovita, un atto di ribellione che ha chiaramente infiammato l’odio di Putin.
La risposta di Mosca è stata brutale: oltre settanta missili e un centinaio di droni hanno colpito il territorio ucraino, in un’azione che trascende la semplice strategia militare per configurarsi come un’aperta dimostrazione di forza e di disprezzo per la sofferenza umana. L’obiettivo dichiarato è quello di provocare blackout e disagi alla popolazione civile in pieno inverno, un’atrocità che Zelensky ha giustamente definito “disumana”.
La minaccia, però, non si limita al solo teatro bellico. La dichiarazione di Lukashenko, pronto a schierare missili ipersonici Oreshnik sul territorio bielorusso, dipinge uno scenario ancora più inquietante. L’uso di queste armi, già testate a Dnipro, rappresenta una grave escalation che proietta un’ombra sinistra sull’Europa. La subordinazione della Bielorussia alla volontà di Putin trasforma questo piccolo stato in un’estensione dell’arsenale russo, una pedina strategica pronta ad essere utilizzata per destabilizzare ulteriormente la regione.
In questo clima di tensione, le dichiarazioni di Putin assumono un’importanza cruciale. La promessa di conseguire “tutti gli obiettivi dell’operazione speciale” nel 2025, accompagnata dalla volontà di “chiudere la guerra, non congelarla”, suona come una sfida lanciata all’Ucraina e all’Occidente. L’omissione delle pesanti perdite russe, stimate in quasi 800.000 tra morti e feriti, e il silenzio sulle crescenti difficoltà economiche del paese, rivelano una narrazione distorta della realtà, finalizzata a mantenere alto il morale interno e a giustificare la prosecuzione del conflitto.
Anche le aperture diplomatiche appaiono condizionate da un’ideologia di dominio. La proposta di mediazione del premier slovacco Fico, noto per la sua vicinanza a Mosca, e i colloqui proposti da Lavrov, sono subordinati alle “garanzie di sicurezza” per la Russia, tradotte in pratica in un indebolimento della NATO a Est. L’atteggiamento ambiguo attribuito alla Francia, e la conseguente chiusura al dialogo, dimostrano come Mosca sia disposta a negoziare solo a proprie condizioni, senza un reale desiderio di trovare una soluzione pacifica.
Il futuro appare incerto, minacciato dall’ascesa di un potenziale presidente Trump, e dall’indebolimento del sostegno europeo all’Ucraina. La resistenza ucraina, di fronte a questa morsa, è un esempio di coraggio e determinazione, ma il peso della guerra e delle minacce esterne grava su un paese martoriato, che rischia di soccombere di fronte a un avversario spietato e privo di scrupoli. La pace, oggi, sembra più lontana che mai, e il Natale di sangue di quest’anno rappresenta un monito inquietante per il nuovo anno.