Dall’11 al 14 settembre. L’attacco alle due installazioni petrolifere della Saudi Aramco di Khurais e Alqbais in Arabia Saudita non può certo essere messo a confronto con la portata e le conseguenze degli attentati di New York e Washington. Tuttavia, l’accaduto segna una nuova data particolarmente significativa nella storia recente del Medio Oriente.
L’Iran continua a rigettare ogni responsabilità, spostando l’attenzione sulle milizie sciite Houthi nello Yemen, il cui lancio di missili e droni diretti verso l’Arabia Saudita è ormai divenuta un’abitudine quotidiana. «Si tratta di autodifesa», giustifica il presidente iraniano Rouhani, sorvolando sul fatto che l’intervento nello Yemen della Coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, è dovuto nient’altro che all’occupazione del paese ad opera delle milizie sciite armate dall’Iran.
In ogni caso, se anche fosse vero che nel lanciare gli oltre venti missili e droni che hanno colpito i siti della Saudi Aramco gli Houthi hanno agito autonomamente, senza prendere ordini da Teheran, quest’ultima manterrebbe ugualmente una responsabilità oggettiva negli attacchi. Gli ordigni esaminati sui luoghi incriminati risultano infatti essere di fabbricazione iraniana, al pari di quelli che le milizie sciite utilizzano solitamente contro la Coalizione e gli obiettivi civili in territorio saudita.
D’altro canto, le indagini condotte da Stati Uniti e Arabia Saudita spostano l’attenzione dallo scenario yemenita allo stesso Iran e all’Iraq, quali luoghi di lancio dei missili e dei droni. Il governo di Baghdad smentisce, ma al contempo non è in grado di esercitare alcun controllo sulle milizie estremiste al soldo dei Pasdaran che oggi spadroneggiano nel paese e avrebbero potuto liberamente prendere di mira l’Arabia Saudita da postazioni di confine.
A prescindere dalla provenienza degli ordigni, l’attacco è indice della disponibilità del regime khomeinista a intensificare ulteriormente l’escalation militare avviata negli ultimi mesi con l’assalto a petroliere e navi commerciali nelle acque del Golfo. A Teheran sono infatti convinti che l’Occidente non darà mai seguito alla solita frase di circostanza: “Non è esclusa l’opzione militare”. Neppure il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. A differenza di Obama, fautore dell’appeasement totale, Trump ha rilanciato una politica estera e di sicurezza di aperta contrapposizione nei confronti di Teheran, ritirando Washington dall’accordo sul programma nucleare, reintroducendo le sanzioni e rafforzando la presenza militare americana nel Golfo.
Ciononostante, al pari di tutti i suoi predecessori, i due Bush e Reagan compresi, Trump ha lasciato intendere di essere disposto a negoziare con il regime khomeinista, per evitare di doverlo affrontare in un vero faccia a faccia. Militarmente parlando, l’esito del confronto sarebbe scontato, ma la forza è tale solo sulla carta se non abbinata a volontà e coraggio. Di qui, l’escalation impertinente fino all’attacco del 14 settembre, avvenuto dopo che Trump aveva lanciato chiari segnali di essere disposto a intavolare nuovi negoziati, estromettendo il falco John Bolton dal Consiglio di Sicurezza Nazionale e prospettando un incontro con Rouhani a margine dell’imminente Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York.
Costringere persino Trump alle trattative sarebbe una grande vittoria per l’Iran, che ha aperto la strada a tale eventualità nella maniera che conosce meglio, vale a dire incrementando il tasso di destabilizzazione dell’area fino a colpire obiettivi strategici come quelli petroliferi, per rafforzare la propria capacità di ricatto nei nuovi possibili negoziati.
L’Occidente sembra dunque essere ricaduto nell’ennesima trappola del regime khomeinista. Sul versante europeo, l’UE e i ministri degli esteri dei principali paesi hanno condannato l’attacco e espresso solidarietà all’Arabia Saudita, promettendo di rafforzare la sicurezza nel Golfo. Ma Teheran sa che sono soltanto parole.
Pertanto, l’attacco contro la Saudi Aramco non darà luogo a nessun conflitto diretto o guerra totale, bensì a nuove forme di accomodamento che, nella sostanza, sanciranno la legittimazione da parte dell’Occidente e della comunità internazionale dei risultati conseguiti dalle politiche espansionistiche iraniane in Medio Oriente. Fino alla prossima escalation e al ripetersi del medesimo copione.
Di Souad Sbai