La Via Crucis non si è svolta, come gli altri anni, al Colosseo, per le disposizioni di contenimento anti-Coronavirus. Nelle 14 stazioni della Via Crucis, a portare la croce sono stati prima Michele, un ex detenuto del “Due Palazzi” oggi “uomo nuovo” e piccolo imprenditore, il direttore della casa circondariale padovana Claudio Mazzeo, il vicecommissario della Polizia Penitenziaria Maria Grazia Grassi, un agente della stessa polizia, la volontaria Tatiana Mario e il cappellano don Marco Pozza. Dopo di loro, alcuni medici e infermieri del Fondo assistenza sanitaria del Vaticano, che in Italia sono in prima linea nel servizio agli ammalati colpiti dal virus: tra loro, Esmeralda Capristo, medico internista del Policlinico Gemelli e ricercatrice di Medicina interna all’Università Cattolica, e Paolo Maurizio Soave, anestesista rianimatore del Policlinico Gemelli e docente a contratto dell’Università Cattolica, sede di Roma. Entrambi assistono pazienti contagiati dal Covid-19, ricoverato al Gemelli e al Columbus Covid 2 Hospital. Il percorso ha inizio nei pressi dell’obelisco, gira attorno allo stesso per otto stazioni e poi procede verso il “ventaglio” per quattro stazioni. La dodicesima stazione, sotto il “ventaglio” è collocato il Crocifisso di San Marcello, rivolto verso il Pontefice. La tredicesima stazione è a metà del “ventaglio”, mentre l’ultima è sopra la piattaforma.
Venerdì Santo 10 aprile 2020, la piazza San Pietro vuota ma illuminata dalle fiaccole e dalla croce di Gesù. Croce e Luce, nel dolore di Gesù che muore c’è la rinascita dell’umanità, nel suo martirio c’è la certezza della vita eterna. E’ la Basilica Vaticana, luogo della sepoltura di Pietro, a fare da sfondo alla celebrazione del Venerdì Santo. Non il Colosseo, l’anfiteatro consacrato alla memoria dei martiri, ma il cuore della cristianità, diventato sempre più una chiesa domestica in questo tempo difficile segnato dal coronavirus. Un’epidemia che provoca distanza, lacrime e solitudine, eppure lì sotto la croce ci siamo tutti, sconfitti, reietti, potenti, tutti uguali agli occhi di Dio.
Dio ascolta la voce rauca degli invisibili
C’è il Crocifisso di San Marcello al Corso, proprio come due settimane fa quando Francesco pregò per la fine della pandemia. Lì sul sagrato della Basilica, il Papa ha davanti una piazza vuota, illuminata dalle fiaccole che segnano il percorso della croce. Vuota di persone ma piena di domande, di verità, di sguardi verso la croce, alla quale i detenuti del carcere di Padova “Due Palazzi” hanno guardato per donare un pensiero, per mettersi a nudo davanti al Signore. Un Dio, con i chiodi alle mani e la corona di spine sul capo, che da sempre ascolta la “voce rauca” della gente che abita questo mondo invisibile; gente che vive nell’ombra, che ha sentito il fascino del male o ne ha subito le conseguenze più gravi; gente che nella speranza e nella Risurrezione che arriva in frammenti di luce, nell’abbraccio misericordioso di Dio. Francesco ascolta, prega alla fine di ogni meditazione e, offre la sua benedizione. Parole di preghiera in risposta alle tante voci dolorose di coloro che vivono nel silenzio delle prigioni ma anche rispetto alla sofferenza di un mondo che, in piena pandemia, si ritrova smarrito.
La grazia delle lacrime
A portare la croce ci sono i cirenei, i Pietro, i Barabba di oggi. C’è Michele, ex detenuto, che ha sentito tutto questo su di sé. Oggi è un uomo risanato ma le parole della prima meditazione sono un richiamo alla sua vita. “Crocifiggilo”: il grido della folla, nella prima stazione della Via Crucis, che condanna Gesù, un grido che ancora oggi non si spegne ma si rafforza, una crocifissione che gli ergastolani vivono sulla loro pelle, eppure il carcere – scrive un detenuto – è visto come “una salvezza”.
“Non ho ancora perduto la capacità di piangere di vergognarmi della mia storia passata, del male compiuto”
La vita che non si arrende al male
Il peso della croce di genitori che vivono la scomparsa della figlia, uccisa da un uomo senza pietà, è grande. Ma proprio nella disperazione – scrivono – il Signore ci viene incontro, “donandoci la grazia di amarci come sposi, sorreggendoci l’uno all’altro pur con fatica”. La loro vita non è una resa al male, tutt’altro, è una porta aperta a chi ha bisogno perché l’amore di Dio rigenera la vita.
Il Papa: Preghiamo “O Dio, infondi nei nostri cuori la tua speranza per riconoscerti presente nei momenti bui della nostra vita”.
La caduta che è morte
Gesù cade una prima volta, su di lui il peso delle iniquità di noi tutti. Ingiusto come togliere la vita ad una persona; ingiusto come credere che nel mondo non esista bontà, pensandolo – sottolinea una persona detenuta – si è già morti dentro.
Vieni in aiuto alla nostra debolezza e donaci occhi per contemplare i segni del tuo amore disseminati nel nostro quotidiano.
Le lame nel cuore
La croce passa anche nelle mani di alcuni medici e infermieri del Fondo assistenza sanitaria del Vaticano, impegnati nella cura dei malati di coronavirus. Mani che aiutano e raccolgono il dolore. Forte è quello della Madre, una Maria dei nostri giorni, costretta a convivere con la lama che le trafigge il cuore. Una lama fatta di giudizi e di odio che lei respinge con l’amore grande per il figlio condannato, nel suo sguardo la determinazione a non farlo sentire solo. Nel carcere entra pure l’umanità di Simone di Cirene, è colui che aiuta a portare la croce, “che rifiuta la legge del branco mettendosi in ascolto della coscienza”. La sua carezza è una confezione di brioches – quanto di più prezioso – regalata alla moglie del suo compagno di cella, al primo incontro in carcere. Gesti che fanno nascere nel cuore il desiderio di diventare “un cireneo della gioia”.
Il germoglio della speranza
“Cercate il mio volto”: è lì nella contemplazione dei volti sfigurati dalla sofferenza che si va oltre il pregiudizio e la paura. Nel rispetto dei silenzi di chi è dentro, nel varco che le lacrime aprono, c’è “il germoglio di una bellezza che era difficile immaginare”. Insopportabile pensare che il male possa vincere la mia vita. La Via Crucis di un detenuto porta nel baratro un’intera famiglia; una madre che si è accollata la vergogna, un padre disperato in cella.
“O Dio, che non ci lasci nelle tenebre e nell’ombra della morte, sostieni la nostra debolezza, liberaci dalle catene del male e proteggici con lo scudo della tua potenza, perché possiamo cantare in eterno la tua misericordia”
La speranza è ricomporre i pezzi
Tra le donne di Gerusalemme c’è anche la figlia di un ergastolano, la prima delle tante vittime di mio padre: dice lei, costretta a cancellare l’infanzia, a compiere “Giri d’Italia di carceri”. Eppure “per quelli come noi – scrive – la speranza è un obbligo”. Gesù cade per la terza volta. E cade, frantumandosi in mille pezzi, un uomo che non c’era nei momenti importanti dei figli, che è diventato nonno in carcere ma confida nel domani.
“La cosa bella è che quei pezzi si possono ancora tutti ricomporre. Non è facile: è l’unica cosa però che, qui dentro, abbia ancora un significato”
Rivestiti di luce
Di fronte alla verità nuda scappiamo, nascondendoci con maschere di perbenismo. Gesù spiazza, come spiazzano “queste creature sospese” a volte incapaci di capire il male compiuto, simili in alcuni casi a bambini – sottolinea un’educatrice – che possono essere ancora plasmati e quindi salvati. Spiazza il non sentirci abbandonati anche dinanzi all’essere “imbuto di rabbia, di dolore e di cattiverie”. Tentazioni che anche un sacerdote può provare e invece “appeso in croce, il mio sacerdozio si è illuminato”: scrive un prete accusato e poi assolto. Racconta del peso delle parole dure come chiodi, della determinazione per dieci anni di vivere la croce, con la tentazione del farla finita, con la vergogna che sporca tutto. Nell’assoluzione ci sono i cirenei che non sono scomparsi e la preghiera anche per chi lo ha accusato.
La persona non è il male commesso
Gesù muore in croce per una sentenza corrotta. La rigidità del giudizio mette a dura prova la speranza nell’uomo – scrive un magistrato – per questo è necessario imparare a riconoscere la persona dietro la colpa. Anche da condannati, siamo figli della stessa umanità. Carcerati che sono maestri per un frate volontario. Ad un carcere che seppellisce uomini vivi, risponde prendendoli in braccio perché in ognuno di loro c’è sempre Gesù anche se è “infangato” il suo ricordo. Accogliere l’uomo spostando lo sguardo dall’errore compiuto, è la via per far rinascere la fiducia e ritrovare la forza di arrendersi al bene.
“Affidiamo al Padre tuo la Chiesa, che nasce dal tuo fianco squarciato, perché non si arrenda mai davanti all’insuccesso e all’apparenza, ma continui a uscire per portare a tutti il lieto annuncio della salvezza”.
Il Papa prende la croce
All’ultima stazione, Francesco tiene in mano la croce consegnata da un infermiere. La meditazione è di un agente della Polizia Penitenziaria. Ce la metto tutta per difendere la speranza di gente rassegnata a se stessa- sottolinea –, pronta ad essere ancora una volta rifiutata dopo il carcere. “Con Dio nessun peccato avrà l’ultima parola”. E’ la parola profumata di speranza che conclude le meditazioni, segnate dal dolore, ma aperte alla rinascita che solo in Dio può trovare senso.
Ubaldo Marangio