Coronavirus, dopo gli ultimi casi, in cui nel Lazio sono emersi soggetti positivi che prestavano regolare attività di lavoro, in molti si chiedono come mai non sia stata resa obbligatoria l’esecuzione dei tamponi da parte dei datori di lavoro ai propri dipendenti originari di paesi ad alto tasso di pandemia. Ciò che sconcerta è che, a dire il vero, gli imprenditori vorrebbero procedere ma la regione lo vieta. C’è tanto di ordinanza della III sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Roberto Garofoli, che in sede collegiale accoglie l’appello proposto dall’amministrazione regionale e dal Codacons e nega la “sospensiva”. Singolare questo anomalo accoppiamento, con una associazione che solitamente promuove innumerevoli ricorsi contro le amministrazioni, specie quelle a maggioranza di centrosinistra. L’ordinanza, con relatore Giovanni Pescatore, evidenzia la “non manifesta irragionevolezza della scelta regionale di apprestare un sistema diagnostico specialistico a carattere prettamente pubblico in quanto ritenuto, sulla base di plausibili argomenti, maggiormente idoneo a garantire il più tempestivo coordinamento del servizio di analisi e dei relativi flussi informativi; l’ottimale gestione di ogni possibile variabile o contingenza, anche a carattere emergenziale; l’omogeneità delle tecniche diagnostiche e, quindi, dei parametri di riferimento e di affinamento dei risultati”. A nostro avviso, da parte della Regione Lazio permane un vecchio vizio, chiamiamolo così, di “subalternità culturale” ovvero, da sempre la Regione pensa di contenere lo sviluppo delle strutture accreditate non consentendo loro di garantire direttamente alcune prestazioni. In questo caso trattasi di tamponi ma sovente esami basilari e non vengono negati al privato, ancorché accreditato. Ci permettiamo sommessamente di ricordare alla Regione Lazio che l’imprenditorialità sanitaria non si contrasta inibendo prestazioni essenziali per la salvaguardia della salute collettiva ma cercando di migliorare l’offerta pubblica, rinnovando tecnologie, implementando la qualità delle prestazioni e l’accessibilità alle cure e controllando meglio il privato accreditato in quelle che si rivelano, fatalmente, criticità insanabili su cui spesso si interviene in ritardo. Di solito i controlli sono formali e burocratici, effettuati soltanto “perché così è previsto”, senza alcun incentivo al miglioramento e alla innovazione. In altre regioni le tariffe delle prestazioni radiologiche crescono o decrescono in base al livello di aggiornamento tecnologico. Cosa che non avviene nel Lazio, territorio in cui si lotta per arrestare la qualità, naturalmente in modo inconsapevole. Basti pensare che uno degli ospedali pubblici più importanti di Roma ha solo una Tac di 16 anni a 16 strati mentre il privato ormai viaggia con apparecchiature similari a 128 o addirittura a 256 strati. Così, tornando ai nostri tamponi, quale sarebbe oggi, con la pandemia diffusa in Italia quasi esclusivamente da fenomeni di “importazione”, l’interesse generale? Bloccare i laboratori privati autorizzando solo i pubblici, per dirla con i giudici di appello che garantirebbero “più sollecita soddisfazione, nella situazione data, dell’interesse primario tutelato – diritto alla salute articolo 32 della Costituzione – quale istanza prevalente su quelle antagoniste o estendere il più possibile la ricerca del virus nei soggetti a rischio? Emblematica, a tal proposito, la vicenda politico-istituzionale legata alla “guerra dei tamponi” in Consiglio regionale. A fine giugno, l’assise di via della Pisana aveva approvato una mozione del centrodestra che impegnava la giunta regionale a non ricorrere al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar del Lazio di permettere ai laboratori privati di effettuare i tamponi. Apriti cielo! Il solerte assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato ha comunque depositato il ricorso, sostenuto ovviamente nelle spese da noi contribuenti, ponendosi nei fatti in contrasto con la volontà della maggioranza e del Consiglio, espressione dei cittadini. Neanche il prezzo del test in convenzione, stabilito dalla Regione, lo ha fatto desistere. In prima istanza il Tar illustrava “Il bilanciamento degli interessi coinvolti, in cui l’interesse pubblico prevalente è quello di eseguire quanti più esami possibile, specie se questi vengono fatti senza oneri per le finanze pubbliche e senza limitare l’accesso ai reagenti per le strutture del Servizio sanitario”. Subito D’Amato si è speso invitando i cittadini a “diffidare dai tamponi a pagamento non validati”. Chissà per quale motivo, da parte di un assessore che in modo altrettanto convinto si è speso a realizzare posti letto per malati di Covid-19 in numerose strutture private, quando a disposizione ci sarebbe stato l’edificio centrale dell’ospedale Forlanini, chiuso dal suo presidente Zingaretti il 30 giugno 2015 e da allora inutilizzato.