14 novembre 1974 lo scrittore e intellettuale Pier Paolo Pasolini pubblica un coraggioso articolo sul Corriere della Sera dall’inquietante titolo “Cos’è questo golpe? Io so”. ” Io so, non ho le prove, non ho nemmeno gli indizi ma so” continua. Tali allusioni si collegano alla cosiddetta strategia della tensione, una serie di stragi che si presumono pilotate dallo Stato italiano, in combutta con i gruppi neofascisti, con l’obiettivo di incutere paura ai cittadini ogniqualvolta il paese è prossimo a uno spostamento politico a sinistra. Tale scritto mostra eloquentemente quanto Pasolini fosse analitico e oggettivo nelle sue riflessioni, spudoratamente sincero, ma soprattutto lungimirante. Spiega, l’intellettuale, di conoscere i nomi dei personaggi politici della democrazia cristiana e dei servizi segreti dello Stato che “idearono ed eseguirono tutti quegli attentati mediante un uso indiscriminato e spregiudicato di ordigni esplosivi che causarono gravissime stragi di cittadini innocenti, a cominciare da quella di piazza Fontana nella sede della banca nazionale dell’agricoltura a Milano il 12 dicembre 1969”. Si vuole, secondo lo scrittore con tali azioni, far ricadere la colpa sui comunisti rendendo gli stessi invisi all’opinione pubblica, attribuendo loro l’immagine di persone poco affidabili che vorrebbero impadronirsi del potere seminando terrore e morte. Gli attentati inoltre, “avrebbero lo scopo di giustificare l’approvazione di leggi speciali restrittive della libertà, favorendo l’instaurazione di uno stato autoritario, simile a un regime militare”. Sovente il “lavoro sporco” viene affidato a giovani militanti di estrema destra, che paventano l’avanzata del comune nemico che sta facendo breccia nella coscienza della popolazione italiana: il comunismo. Strategia della tensione, questo il nome con cui viene riconosciuta tale evoluzione della lotta politica e Pasolini ha il coraggio di denunciare pubblicamente questo stato di cose. Non può, al momento, fare precisi nomi né esibire prove. Non ne possiede. In caso contrario, rischia una denuncia per calunnia e diffamazione. Nel 1974, quando Pasolini scrive queste parole, è già evidente che il Pci, partito cui si sente idealmente vicino, percorre strategie che sono l’emblema del potere per il potere. Già allora è chiaro a molti, non solo a un intellettuale come lo scrittore friulano, che tutti i partiti, incluso quello comunista, sono “macchine di potere e clientela”, sebbene sette anni dopo, nel 1981, il segretario nazionale comunista, Enrico Berlinguer attribuisca tale definizione alle formazioni politiche avversarie del Pci. L’articolo dello scrittore e poeta non è privo di ricadute. Non si è ancora spenta, in gran parte dell’opinione pubblica, l’idea che lo Stato abbia dato una risposta con il truculento episodio dell’Idroscalo. La teoria del complotto è ancora viva e vorrebbe che lo scrittore – le cui abitudini sessuali lo conducevano spesso in luoghi isolati per incontrare i suoi occasionali compagni – la sera del primo novembre del 1975 all’Idroscalo, una zona degradata e isolata tra Ostia e Fiumicino, fosse seguito da tre sicari mentre tentava un approccio con Pino Pelosi, detto la “rana”. Si racconta di una aggressione violenta, di minacce a Pelosi per indurlo ad attribuirsi la responsabilità dell’omicidio che il ragazzo confessò subito dopo la cattura. Valide le ragioni per accreditare tale versione: il conflitto legato a una prestazione sessuale non accettata dal “ragazzo di vita”, la conseguente lite e la tragica conclusione. Qualcuno reputò non veritiero il racconto di Pelosi, tra le contraddizioni, le prove non chiare, le mezze ammissioni di “Pino la rana”. La mattina del 2 novembre, dopo la diffusione della notizia, sul Corriere della Sera appare un articolo della apprezzata giornalista Oriana Fallaci, anche lei convinta che ad uccidere Pasolini non sarebbe stato il giovane prostituto “ma i fascisti e che questa è la strada da seguire”. La conclusione fu diversa ma spesso a molti piace pensare che il poeta e scrittore sia morto per “amore di verità, una verità per cui si può anche morire”. Ai nostri giorni, passeggiando in una stradina del Pigneto, una ex borgata di Roma assurta oggi a quartiere di tendenza, su una palazzina appare il murales dedicato a Paolo. Camicia rossa, sguardo fiero, indice accusatore e, poco distante la frase “Io so i nomi”, quasi a ricordarci che dietro quell’oscuro omicidio, seppure imputabile a vicende private, c’è la ricerca di una verità che tutti dovremmo perseguire.