Gli stereotipi sessisti c’erano una volta e, purtroppo, ci sono ancora.
Questo è quanto emerge delle storie, raccontate con linguaggio diretto e asciutto, nell’ultimo libro di una sempre efficace Roberta Bruzzone: “Favole da incubo”, dieci casi di femminicidio – avvenuti in Italia negli ultimi anni – nei quali i principali preconcetti culturali e sociali hanno avuto un’influenza determinante.
Stereotipi e pregiudizi cui hanno obbedito un po’ tutti: vittime, assassini, opinione pubblica e perfino i media.
Le autrici partono dai bambini, dalle fiabe che noi adulti siamo soliti raccontare loro e che ci sono state tramandate dai nostri genitori. Scopriamo che la letteratura per l’infanzia, può rappresentare l’involontario mezzo di trasmissione culturale di stereotipi di genere che, se interiorizzati, diventano veri e propri modelli sbagliati su cui si formano le identità dei più piccoli.
Molte fiabe, infatti, contribuiscono a riprodurre modelli sociali tradizionali falsati: le donne, spesso sembrano essere ostaggio di una narrazione che le vuole miti, dolci, remissive e – proiettate nella sola dimensione domestica – addirittura incapaci di badare a loro stesse; gli uomini, al contrario, incarnano, quasi sempre, l’archetipo di eroi avventurosi, fieri e ambiziosi, il cui coraggio li spinge alla conquista di terre inesplorate o, all’occorrenza, tra le braccia di principesse anelanti che hanno, previamente e con rocambolesche trovate, salvato da loro stesse e dalla loro inettitudine.
Proprio le fiabe più note, si prestano a questi rilievi, basti pensare a Biancaneve che, ospite dei sette nani – quando loro vanno al lavoro – resta a casa occupandosi delle faccende domestiche. Sembra che il suo mondo inizi e finisca lì. La caratterizzazione del personaggio esclude altre attitudini che si discostino da questo modello, anzi sarà proprio la sua ingenuità a farle accettare la mela avvelenata e a metterla in pericolo. Destino crudele, fino a quando il deus ex machina rappresentato dal Principe Azzurro, ribalterà gli eventi conducendo la protagonista alla salvezza e la storia al suo lieto fine.
Cenerentola, poi, prototipo delle virtù domestiche, è prigioniera di una situazione intollerabile, vittima delle angherie della matrigna e delle sorellastre, non riesce a dare una svolta alla propria esistenza contando sulle proprie forze e capacità, ma ancora una volta grazie ad un uomo, per di più Principe, troverà la salvezza e l’amore.
Tornando ai nostri giorni, il problema parte da lì.
Secondo la ricostruzione delle autrici di “Favole da incubo”, proprio l’adesione a questi stereotipi ha collocato vittime e carnefici nella scena del crimine. Ma, cosa ancora più grave: si è assistito prima ancora che all’uccisione della donna per mano del suo uomo, all’abdicazione della donna al proprio ruolo di persona, con propri desideri, idee, progetti, sacrificati tutti al “sacro” altare della vita coniugale.
È il caso di Guerrina che – dopo anni tranquilli trascorsi con il figlio e il marito – ha creduto alla favola di un principe azzurro arrivato dal lontano Congo che si faceva chiamare padre Graziano, che principe non era, bensì uno spietato criminale come riconosciuto dalla sentenza di condanna in via definitiva che gli ha inflitto la pena di venticinque anni di carcere per omicidio e distruzione di cadavere.
È il caso di Elena Ceste, madre amorevole di tre figli, intrappolata in una «relazione simbiotica asfittica», relegata ad angelo del focolare, alla quale negli anni è venuto a mancare il coraggio e la determinazione per seguire le proprie legittime aspirazioni e, quando ha tentato di ricominciare da se stessa, ormai era troppo tardi: la mania di controllo del marito e il suo tentativo di “raddrizzarla” le sono stati fatali. Michele Buoninconti, dopo una lunga vicenda giudiziaria, alla fine è stato condannato in via definitiva a trent’anni di reclusione per averla strangolata occultandone il corpo e depistando le indagini.
Il libro affronta molti altri casi noti, come quello ad esempio di Roberta Ragusa, fino a proporre la storia di una sopravvissuta, che è da monito a tutte le donne, quella di Valentina Pitzalis: una vera e propria Araba fenice, scampata al tentato femminicidio da parte dell’ex marito – morto durante l’agguato – che, non rassegnandosi alla fine della relazione, aveva appiccato l’incendio nella casa in cui l’aveva attirata con una scusa. Valentina porta con sé i segni indelebili di quella violenza, ma oggi è diventata il simbolo della lotta al femminicidio, della capacità tutta femminile di rialzarsi, di volare alto anche sul dolore più crudele inflitto ingiustamente.
L’ultima fiaba è quella più brutta, è la fiaba terribile di molti bambini – vittime della “violenza assistita”– perché spesso il lupo cattivo vive con loro ed è il padre: le conseguenze del femminicidio, infatti, non riguardano solo la vittima primaria, ma coinvolgono anche i figli che assistono ai maltrattamenti.
Come scrivono le autrici: «Una favola nera che è un incubo forse peggiore di tutti gli altri perché apre uno squarcio su una realtà spesso ignorata: la vita dei figli quando i riflettori si spengono e devono fare i conti con la perdita della madre, con un padre assassino e con conseguenze psicologiche irreversibili che condizioneranno per sempre le loro vite.»
Chiediamo a Roberta Bruzzone:
– Da bambina, qual era la tua fiaba preferita?
Questa è una bella domanda perché in effetti nella mia famiglia c’era l’abitudine di raccontare favole ma io, da autentica rompiscatole sin da piccina, ne mettevo sempre in discussione i passaggi salienti e quindi non c’era gusto nel raccontare favole a me nella vana speranza di farmi addormentare. Anzi, facevo domande su domande, alcune già abbastanza tecniche a dire il vero, come quelle relative al tipo di veleno contenuto nella mela di Biancaneve. Però ho sempre ritenuto la favola di cappuccetto rosso decisamente quella più irrealistica perché quel lupo travestito da innocua nonnina proprio non mi andava giù. Insomma, possiamo dire che non avevo una favola preferita ma che mi divertivo già da allora a metterle seriamente in discussione tutte.
– Crediamo che occorrerebbe integrare il patrimonio pedagogico delle fiabe tradizionali, se potessi, quale fiaba vorresti riscrivere?
Vorrei scrivere una favola sulla falsa riga di Mulan o di Oceania, storie di bambine diventate donne che la fanno da sole, magari un po’ acciaccate per i colpi che la vita sa infliggere, ma che si rialzano sempre e più forti di prima. Magari un giorno scriverò la favola di una bambina che amava i gatti e le moto e poi ha scelto di fare la criminologa…