C’era una volta una diciasettenne siciliana di nome Franca Viola che un giorno come tanti altri, precisamente il 26 dicembre del 1965, venne rapita, violentata e tenuta segregata in un casolare da un ragazzo: Filippo Melodia.
Una volta arrestato, costui, si mostrò disponibile a sposarla, facendo ricorso al c.d. “matrimonio riparatore” per rimediare, quindi, al disonore sociale della ragazza, ed estinguere così il reato.
Franca rifiutò di sposarsi dando avvio al processo.
Era la prima volta che accadeva in Italia.
Era la prima volta che una donna accettava il “disonore” e rivendicava il proprio diritto di autodeterminazione sfidando le arcaiche leggi di una società patriarcale e retrograda.
Il codice penale, all’epoca dei fatti, all’art. 544, rubricato “Causa speciale di estinzione del reato”, prevedeva che: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’art. 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
Il capo primo cui si riferiva la norma era quello “Dei delitti contro la sfera sessuale” ovvero la violenza carnale, il ratto a fine di matrimonio, il ratto a fine di libidine, inseriti all’interno del titolo rubricato “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” perché non erano considerati reati contro la persona, come avviene oggi, bensì, contro la moralità pubblica e il buon costume.
La legge che regolava questo istituto – di chiara matrice fascista – riversava quindi tale sistema di valori nel nucleo familiare, al cui vertice poneva il capo famiglia, mentre la donna era relegata ai soli lavori domestici, al suo compito di fattrice, tanto esaltato dalla propaganda di regime, non essendole consentito, di fatto, avere una piena disponibilità della sua esistenza e del suo corpo.
Soltanto con la legge n. 442 del 1981 in Italia fu abolito il “matrimonio riparatore”.
Fortunatamente, oggi molte cose sono cambiate e la violenza sessuale è un reato punito con una pena che può variare dai sei ai dodici anni di reclusione e non ammette alcuna scriminante; anzi, chi ha commesso uno stupro nei confronti del proprio coniuge, anche separato o divorziato, o di una persona con la quale ha intrattenuto una relazione sentimentale, è punito con una pena maggiore di un terzo rispetto alla pena base.
Da ultimo, inoltre, in Italia, il c.d. Codice Rosso, ha provveduto anche a incriminare i c.d. matrimoni forzati (art. 558-bis c.p. “Costrizione o induzione al matrimonio”), ma la situazione nel resto del mondo rimane complessa.
Sono ancora tante le Franca Viola abusate, spesso minorenni, che tentano, come possono, di preservare la loro dignità, fuori dai sistemi giuridici tribali dei loro Paesi d’origine, rinunciando a matrimoni con i loro stupratori e rivendicando il loro diritto all’autodeterminazione.
Ancora oggi, molte sono le istanze di riforma che provengono da intense e coraggiose campagne di sensibilizzazione promosse da associazioni sparse in ogni parte del mondo.
Quello che molti ignorano, però, è che queste leggi – soprattutto in Medio Oriente e nel Nord Africa – risalgono al periodo coloniale, queste norme infatti derivano dal Codice Napoleonico del 1810, riproposte poi dal Codice Ottomano nel 1911.
L’impostazione patriarcale di queste società, unita allo stigma che segna le donne vittime di violenza (che spesso sono destinate a non trovare mai un marito), ha permesso la sopravvivenza della legge che condona lo stupro in caso di matrimonio tra la vittima e il carnefice. Una legge che – in molti casi – rappresenta paradossalmente una forma di tutela della vittima di violenza che rischia altrimenti di essere uccisa dalla famiglia per aver avuto rapporti sessuali al di fuori del matrimonio.
Nonostante la complessità di questo fenomeno, qualcosa, però, sta cambiando.
A partire dal Marocco che ha vietato tale istituto nel 2014, due anni dopo che Amina Filali – una ragazza di sedici anni vittima di violenza sessuale – si tolse la vita pur di non sposare il suo stupratore.
Anche il Libano sta facendo passi in avanti: dopo l’attività di sensibilizzazione dell’organizzazione non governativa Abaad che ha lanciato la campagna ”A White Dress Doesn’t Cover the Rape” cioè “Un vestito bianco non nasconde lo stupro” dal 2017 anche questo Paese non ammette più il “matrimonio riparatore”.
Così come la Giordania e la Tunisia.
Al contrario, purtroppo, in molti Paesi votati alla Shari’a, nell’Asia meridionale e nell’Africa subsahariana, il “matrimonio riparatore” è ancora diffusissimo.
Ciò non avviene solo nel mondo arabo, ma è tuttora praticato anche in paesi prevalentemente cristiani, come le Filippine, e lo era anche nei paesi del Sud America fino ai primi anni duemila.
Le ultime preoccupanti ondate di revisionismo provengono purtroppo da una terra che in questi ultimi anni è stata oggetto di devastanti minacce ai diritti umani: è di appena un anno fa (del gennaio 2020), la proposta di Erdoğan, che ha addirittura tentato di reintrodurre “il matrimonio riparatore” in Turchia.
Appare evidente, allora, che questo non costituisca in alcun modo un problema che ci siamo lasciti alle spalle, ma – nella sua preoccupante attualità – è vissuto nella scena internazionale come una piaga che si ha urgenza di estirpare, tanto che è stato inserito tra gli obiettivi previsti dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Raggiungere l’uguaglianza di genere al fine di emancipare tutte le donne e le ragazze e porre fine, ovunque, a ogni forma di discriminazione nei loro confronti vuol dire anche questo.
Eliminare ogni forma di violenza, sia nella sfera privata sia in quella pubblica, compreso il traffico di donne e lo sfruttamento sessuale e di ogni altro tipo costituisce allora una priorità.
Eliminare ogni pratica abusiva come il matrimonio combinato, il fenomeno delle spose bambine e le mutilazioni genitali femminili rappresenta quindi ancora un’emergenza.