La serie Netflix «SanPa – Luci e Tenebre di San Patrignano» sta facendo molto discutere.
La storia di San Patrignano è nota a tutti.
Nel 1978, in piena emergenza eroina, Vincenzo Muccioli, in un podere nella campagna riminese, fondò una comunità terapeutica per la cura dei tossicodipendenti che, ben presto, diventerà la più grande d’Europa.
La complessità della figura di Muccioli parimenti a quella di un fenomeno – allora del tutto sconosciuto – come la dipendenza da eroina, furono determinanti.
San Patrignano diventò il centro dell’interesse di media, politica e poi, con l’avvicendarsi delle inchieste giudiziarie, anche della magistratura.
Sicuramente fu un’esperienza divisiva per la storia dell’Italia repubblicana di quegli anni: emerse l’inadeguatezza della società ad affrontare l’eroina e, nelle aule di giustizia, si cercò un punto d’equilibrio tra la necessità di cure del soggetto tossicodipendente e il rispetto dei suoi diritti fondamentali.
La questione prese il via da quello che, nel 1983, i mezzi d’informazione chiamarono “processo delle catene”, affrontato dalla giurisprudenza come “il problema della revocabilità del consenso dell’avente diritto”.
In breve la vicenda giudiziaria: Muccioli fu condannato per sequestro di persona, violenza e maltrattamenti ai danni di alcuni giovani tossicodipendenti ospiti della comunità, incatenati per superare le crisi di astinenza. Dopo la condanna in primo grado, giunse la successiva assoluzione in appello, confermata in Cassazione nel 1990.
Il problema nacque dal contratto sottoscritto dai ragazzi all’ingresso della struttura che prevedeva il consenso a essere trattenuti forzosamente in comunità.
Secondo i giudici di primo grado – che difatti condannarono Muccioli – tale consenso prestato all’inizio, poteva essere in ogni momento revocato, anche dal soggetto in cura che non aveva la piena capacità di intendere e di autodeterminarsi perché versava in uno stato di alterazione causata dalla crisi d’astinenza.
Ne conseguiva che la prestazione anticipata del consenso non escludeva che potesse intervenire una decisione contraria del paziente volta ad abbandonare la struttura che, pur discutibile e foriera di ripercussioni di carattere sanitario legate alla propria incolumità, doveva tuttavia essere sempre rispettata.
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 28 novembre 1987, ribaltando la decisione del giudice di primo grado, ritenne che il delitto commesso in danno di tossicodipendenti sottoposti in comunità “chiusa” a programmi terapeutici comprendenti la restrizione delle libertà personale, fosse scriminato dal consenso anticipatamente prestato dal ricoverato all’atto di ammissione alla comunità (a condizione che la privazione della libertà non si protraesse oltre il tempo strettamente necessario al recupero del soggetto e non venisse attuata con modalità tali da lederne la dignità di persona umana).
Del resto, il nostro ordinamento ammette che in alcune situazioni particolari un fatto, che dovrebbe essere considerato reato, non acquista tale carattere perché la legge lo impone o lo consente. In particolare, l’art. 50 del codice penale stabilisce che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamente disporne.
Il tossicodipendente, quindi, accettando di essere trattenuto forzosamente in comunità, aveva anticipatamente previsto e acconsentito alla privazione della propria libertà personale ora per allora, cioè per il momento in cui la manifestazione della volontà di uscire sarebbe stata certamente attribuibile allo stato di astinenza.
Non si trattò, quindi, di sequestro di persona.
Questo “docufilm” ha suscitato diverse reazioni: al grande entusiasmo del pubblico si sono contrapposte aspre critiche provenienti dai vertici della comunità per il racconto, a loro dire, sbilanciato, la spettacolarizzazione di alcuni episodi drammatici, l’assenza di adeguata considerazione delle moltissime vite salvate.
Tuttavia, al netto delle critiche al “metodo Muccioli” e al suo operato, era inevitabile che alcune vicende, nella loro complessità, fossero destinate a scavalcare i confini chiusi della comunità di recupero, giungendo nelle aule di giustizia e diffondendosi in tutta la società civile: la compromissione della libertà personale e della dignità di alcuni ragazzi, ancorché finalizzata al trattamento terapeutico, non poteva rimanere una questione interna a San Patrignano perché poneva questioni etiche assai più ampie, di cui la società doveva, evidentemente, e con estrema urgenza farsi carico.
Sicuramente questa comunità diede una prospettiva salvifica a migliaia di ragazzi persi, però, al tempo stesso, portò alla luce questioni morali assai delicate che ancora oggi, dopo quasi quarant’anni, sono drammaticamente attuali, perché il problema delle dipendenze è solo mutato nel tempo, non si è arrestato, anzi, si rinnova al rinnovarsi delle sostanze psicotrope presenti sul mercato.