Secondo le ultime rivelazioni del fratello, ancora da verificare, si tratterebbe di un omicidio pianificato e attuato in famiglia: Saman, la diciottenne promessa in sposa a un cugino in Pakistan, sarebbe stata uccisa e fatta sparire perché non voleva accettare un matrimonio combinato (forzato).
Episodi simili non sono nuovi alla cronaca. L’espandersi sempre più frequente dei flussi migratori ha aumentato il numero dei c.d. reati culturalmente orientati o motivati, ovvero di quei fatti che costituiscono reato nell’ordinamento italiano, pur essendo espressione di principi, valori e consuetudini riconosciuti e praticati dal gruppo etnico di appartenenza.
Il caso dei matrimoni forzati e dei maltrattamenti in famiglia ai danni di mogli e figli, delle mutilazioni genitali, dell’accattonaggio sono solo alcune delle pratiche penalmente rilevanti per il nostro sistema giudiziario ma consentite e addirittura promosse nei gruppi etnici e nei Paesi di provenienza.
Il compito degli ordinamenti giuridici è di cercare di dirimere il conflitto tra diritto del luogo in cui si vive e appartenenza a una comunità culturale portatrice di valori e costumi differenti.
Non è sempre facile.
Se da un lato, infatti, l’interpretazione delle norme penali deve tener conto dell’integrazione dei migranti nella compagine sociale e del conseguente multiculturalismo, dall’altro non può certo pretendersi che il sistema penale abdichi – in ragione del rispetto di altre tradizioni culturali, religiose o sociali – alla punizione di fatti che colpiscano o mettano in pericolo beni di maggiore rilevanza tutelati dal nostro ordinamento (Cass. pen., n. 29613/2018)
Una delle prime sentenze riguardanti i reati c.d. culturalmente orientati risale al 1999 e riguarda il caso di un imputato – di origine albanese – il quale, resosi responsabile di maltrattamenti nei confronti dei propri familiari, sosteneva che vi fosse stato il loro consenso in considerazione dei poteri che abitualmente il “capo-famiglia” aveva nella loro cultura di provenienza, quindi che dovesse esser applicato l’art. 50 c.p. (che stabilisce che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamente disporne).
Secondo la Corte di Cassazione (sent. n.3398/1999) «il soggetto responsabile di maltrattamenti in famiglia non può invocare a proprio favore la scriminante di cui all’art. 50 c.p. […] I principi costituzionali (dignità sociale, eguaglianza, libertà, sviluppo della personalità umana), costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione nella società civile di consuetudini, prassi, costumi che contrastano con i risultati ottenuti nel corso dei secoli per realizzare l’affermazione dei diritti inviolabili della persona.»
Ma i reati culturalmente motivati possono essere di diversa natura, si pensi, ad esempio alla consuetudine di alcune popolazioni di usare i bambini nell’accattonaggio. La Cassazione (sent. n. 2841/2007), nell’affrontare un caso di maltrattamenti e riduzione in schiavitù da parte di un padre, aveva escluso che egli potesse invocare l’art. 51 c.p. (l’esercizio del diritto): non si può pensare che un siffatto diritto derivi dalla consuetudine di alcuni popoli di usare i bambini in tal senso. «[…] Anche un popolo allogeno come quello degli zingari, quando si insedia nel territorio italiano, deve osservare le norme dell’ordinamento giuridico vigente e non può invocare i propri usi tradizionali per consentire comportamenti che sono vietati dalle norme penali. […] non si tratta di criminalizzare il c.d. “mangel” (l’andare in giro a chiedere l’elemosina) usualmente praticato […] in particolare dai “rom“» ma di tutelare i bambini, giacché quel tipo di vita mortifica certamente la loro personalità, avevano chiosato i giudici.
Ma siamo sicuri che il caso di Saman sia legato alle diversità etniche o invece ha a che fare con gli effetti trasversali di un sistema patriarcale che ben conosciamo?
Richiama, sicuramente alla mente la stessa inutile crudeltà di un altro caso, (Trib. Padova, G.U.P. sent. n. 446/2005) nel quale un padre (condannato a 15 anni di reclusione) aveva cagionato la morte della figlia perché – come da lui stesso riferito – la ragazza, nonostante il suo veto, si vedeva ancora con un giovane marocchino con il quale, in passato, aveva instaurato un’affettuosa amicizia. Sulla condanna aveva inciso la circostanza prevista dall’art. 61, n. 1, c.p. ovvero “l’avere agito per motivi abietti o futili” perché l’imputato aveva picchiato a sangue la figlia non solo per sapere se la relazione durava ancora, ma anche per indurla ad accettare un matrimonio combinato.
Vi era stata una sproporzione tra movente e azione delittuosa e i giudici – nel valutare il substrato culturale e l’ambiente in cui viveva e aveva agito l’autore del fatto – compresero che si trattava di persona di cultura mussulmana che, col pretesto di una apparente legittimazione derivante dalla religione islamica, aderiva a modelli di vita in cui vi è una disparità di trattamento tra uomo e donna, essendo quest’ultima per consuetudine, secondo regole arcaiche, assoggettata all’arbitrio della famiglia patriarcale tribale che dispone di lei come una proprietà e non la considera come persona.
Tale situazione – specificò il G.U.P. – però è oggi sempre più rara in ambienti islamici moderati, come il Marocco, essendoci un lento processo di occidentalizzazione, favorito anche dai mass media che tendono alla globalizzazione. Un cittadino marocchino, dopo alcuni anni trascorsi nel nostro Paese, è dunque perfettamente in grado – pur conservando la propria cultura e le proprie origini – di rendersi conto dell’insopprimibilità in un Paese civile di alcuni diritti fondamentali della persona umana, quali l’autodeterminazione. Se ciò nonostante egli reagisce con inaudita violenza a fronte di una ribellione allo stato di soggezione della figlia, la sua condotta diventa non già espressione di una cultura arcaica, ma di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, della quale non tollera l’insubordinazione.
Sul caso di Saman, anche l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia ha formulato una Fatwa (parere religioso) stigmatizzando tale episodio, ribadendo il concetto che tale pratica tribale non può trovare alcuna giustificazione religiosa, e rinnovando l’impegno delle comunità nel contrasto e nella prevenzione di atti che oltre ad essere contrari all’ordinamento giuridico italiano, sono in contrasto anche con la dottrina islamica.
Prima ancora che vi fossero notizie certe su Saman, le Lediesis – giovane collettivo anonimo di street artist – l’hanno immortalata dedicandole un bellissimo murales.
Le Lediesis l’hanno così accolta nel loro olimpo femminile, fatto di donne portatrici di libertà: libertà che prima di lei, per queste artiste, ha avuto nomi illustri e le sembianze di Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Sora Lella (che sta a Roma a Trastevere) … solo per fare qualche esempio.
Tutte eroine indipendenti e consapevoli: che strizzano l’occhio con complicità ai passanti con una “S” di Supermen sul petto.
Anche Saman strizza il suo occhio al mondo che verrà… e a tutte le donne che, come lei, lavorano alla realizzazione di sé.
Ci strizza l’occhio con complicità perché, in fondo, lo sappiamo bene anche noi donne occidentali, che, questi sistemi tribali – talvolta nel silenzio, talaltra con più rumore – tentano di imporsi proprio quando, a vario titolo, un modello femminile prova a uscire dal perimetro dell’ordine dato.