Tra le varie tipologie di processo, quello mediatico è senza dubbio il più popolare pur essendo un «non processo».
Questo è quanto emerge dall’ultimo libro di Adriana Pannitteri, giornalista televisiva del TG1 e Valerio de Gioia, magistrato penale, prefazione di Massimo Bernardini e postfazione di Klaus Davi, che in occasione del ventennale del delitto di Cogne, in cui perse la vita il piccolo Samuele, ripercorrono i casi mediatici più importanti di questi ultimi anni soffermandosi sulla suggestiva, e quanto mai pericolosa, interazione dei media con il processo penale; ciò che, più di recente, gli stessi magistrati della Procura che si sono occupati della riapertura delle indagini sulla scomparsa di Denise Pipitone, hanno definito “corto circuito mediatico/giudiziario”.
Del resto, a partire dal caso di Annamaria Franzoni, passando per quello di Parolisi, Ciontoli, Bossetti (solo per citarne alcuni), i giudici sembrano essere considerati detentori di una sola delle tante verità, quella che quasi con accezione dispregiativa viene chiamata: «processuale».
La frase «lasciamo che la giustizia faccia il suo corso» ormai non ha più senso, superata dalle “verità” che emergono nella grande aula virtuale in cui si celebra il processo mediatico dove l’abbonato ha il suo posto in prima fila.
In effetti, la generalizzata passione per la cronaca giudiziaria, attestata dagli ascolti televisivi, condiziona i palinsesti e suggestiona i telespettatori: sembra quasi che i tre gradi di giudizio non siano sufficienti per giungere alla verità.
Ma attenzione, in questo libro gli autori, chiariscono che il processo mediatico, giuridicamente parlando, è un non processo. Le garanzie di cui gode l’indagato/imputato nelle nostre aule di giustizia, punto di arrivo di una faticosa evoluzione giuridico-culturale, in tv non trovano applicazione.
Questo perché il processo mediatico viene di solito celebrato in assenza di contraddittorio: la persona di cui si parla – sovente in termini tutt’altro che lusinghieri –, nell’immediatezza non ha la possibilità di replicare, non può dare la sua versione dei fatti quindi non può difendersi.
Nei salotti televisivi un ruolo centrale, assumono le valutazioni personali, le dicerie, il pettegolezzo becero: in contrasto con la regola del processo vero che vieta al testimone di deporre sulle voci correnti nel pubblico o di esprimere apprezzamenti personali.
Spesso le dichiarazioni rese ai media, da parte dell’indiziato/sospettato, non sono «assistite», nel senso che vengono raccolte in assenza del difensore. Non viene neppure dato l’avvertimento, la cui mancanza porta alla inutilizzabilità in giudizio, della facoltà di non renderle. Si tratta della cosiddetta «facoltà di non rispondere».
Il diritto al silenzio è da sempre riconosciuto all’indagato proprio per evitare che possa danneggiarsi, ossia aggravare la sua posizione; deve, peraltro, essere avvisato che, se decide di dare una sua versione dei fatti, questa potrà essere utilizzata contro di lui.
Tutte queste garanzie non sono previste per le dichiarazioni rese nel corso delle interviste. E questo è ancora più aberrante se si pensa che il sospettato, ma talvolta anche l’indiziato, per rendere chiara la propria estraneità ai fatti avverte la necessità di dire la sua tramite i mezzi di informazione: ma si tratta spesso di una strategia difensiva controproducente. Non di rado, le dichiarazioni – lacunose e contraddittorie – rese nel corso di trasmissioni televisive sono refluite nelle motivazioni dei provvedimenti cautelari o delle sentenze di condanna.
Certo, la cronaca giudiziaria, deve rispettare dei limiti rigorosi: l’eventuale racconto in chiave colpevolista, in spregio al principio di presunzione di non colpevolezza garantito dalla Costituzione, può costituire fonte di responsabilità, non solo per l’intervistato ma anche per il conduttore della trasmissione e gli altri ospiti della puntata qualora non prendano le distanze dalle dichiarazioni assunte come lesive della reputazione dell’indagato. Ma ciò non basta.
Secondo la Cassazione, non possono mai essere espresse valutazioni autonome rispetto alle indagini tali da orientare a qualificare come colpevole l’imputato. Il mancato rispetto di queste elementari regole porta alla celebrazione di un processo agarantista, il cui unico fine è quello di suggestionare la collettività.
Tutto questo segnerà la fine del processo mediatico? Gli autori giungono ad una amara conclusione. Il processo mediatico non avrà mai fine: fino a quando l’uomo commetterà delitti ci sarà sempre qualcuno pronto a raccontarli anticipando, in chiave colpevolista, le conclusioni cui giungerà – molto più tardi – l’autorità giudiziaria.
Questo perché il processo mediatico ha una inaspettata funzione catartica: ridimensiona i nostri problemi quotidiani e ci assolve da ogni nostro piccolo peccato.
Che sarà mai un litigio condominiale, automobilistico, familiare, una reazione violenta sul lavoro quando, una volta a casa, la televisione ci racconta di drammi così ben confezionati, riproponendoci in chiave moderna topoi letterari, schemi narrativi che affondano le loro radici in un passato sempre attuale?