Si discute sul reddito di cittadinanza. Durante un’informativa al Senato Marina Elvira Calderone, ministra del Lavoro, ha ribadito i tropi classici del liberalismo.
Primo presupposto calvinista: “Non rinunciamo a vedere nel lavoro il vero rimedio alla povertà, il mezzo migliore per contrastare l’indigenza”.
Il lavoro consente il riscatto della propria esistenza. “Tutti devono avere il diritto a rendere reversibili i propri percorsi di vita”.
Inevitabilmente arriva lo sguardo prospettico verso la condizione di recessione dell’economia e di inflazione negli scambi commerciali.
“Corre l’obbligo per tutti noi di gestire questa transizione complessa e articolata – soprattutto date le condizioni di partenza – nello spirito di massima collaborazione istituzionale e comune responsabilità politica”. Ma dice anche che dal ministero dell’Interno: “non si registrano criticità in ordine a paventate tensioni sociali”. Come dire: se non si annuncia una rivoluzione si possono anche lasciare alla fame interi comparti di società.
Ma la contraddizione sta nella centralità del sostegno che deve essere riconosciuta. Segno evidente che una crisi c’è e non può essere superata evocando semplicemente il lavoro come riscatto. Calderone giura di non aver ridotto il sostegno. Riprende così i tropi classici della gestione economica socialisteggiante. Però c’è un concetto nuovo, da metter bene a fuoco: “il sostegno va al singolo non al nucleo familiare. Se il nucleo ha più di un soggetto occupabile è riconosciuto a tutti quei soggetti che si attivano ed entrano in uno dei percorsi di inclusione lavorativa”. Con il passaggio dal reddito di cittadinanza al nuovo regime in cui si sostiene la formazione e l’introduzione al lavoro si garantisce l’emancipazione di colui che è estromesso dal circuito produttivo o ancora deve entrarci. Verbo della Calderone.