Hanno fatto il giro del web le dichiarazioni rilasciate dal ministro dell’istruzione Lucia Azzolina in merito al futuro della scuola italiana e al ruolo degli alunni visti come “imbuti da riempire”. Uno scivolone mediatico che, al di là del suo aspetto comico, ha messo ancora una volta in luce l’importanza che la ministra ha dato durante la pandemia agli studenti, giocatori fondamentali della partita all’istruzione, certo, ma non gli unici in campo. Durante la pandemia le parole spese dalla Azzolina a sostegno degli insegnanti sono state pochissime, perché la totale attenzione è stata accentrata sui ragazzi i quali, oltre a vivere una situazione di disagio sociale, sono stati costretti a ripiegare su un insegnamento a distanza e online, terreno di scontro tra chi pensava fosse la soluzione del futuro e chi, più realisticamente, ne ha constatato le varie difficoltà.
Di fatto, i docenti, da sempre accanto agli alunni nell’attività di insegnamento, sono stati ridotti a mere “macchine del sapere“, senza orari di lavoro, senza la minima considerazione dello stato emotivo in cui anche questi versavano, senza alcun riguardo nei confronti di chi ha dovuto spesso anteporre la scuola alla famiglia. Che le scelte e i comportamenti degli insegnanti fossero già da anni sottoposti al vaglio minuzioso e scettico dei genitori è ormai cosa nota, ma che questi ultimi avessero facoltà di scegliere anche a che ora far fare lezione online ai figli è qualcosa che abbiamo appreso solo recentemente, quando la correttezza o meno degli orari di didattica “frontale” ha cominciato a dipendere dalla disponibilità di un computer.
E proprio dall’utilizzo del PC e dalla presenza di una rete wireless deriva la possibilità, per gli insegnanti, di ricevere via mail i compiti dei propri alunni. Un susseguirsi di riverenze che i docenti devono fare pur di ottenere un avanzamento del programma didattico il più simile possibile a quello canonico svolto in aula, quasi come a sottolineare la sudditanza del corpo docenti alla funzione dei genitori che, talvolta, incuranti delle ore di lezione online porgono sottobanco la merenda ai propri figli, esattamente come farebbero laddove questi guardassero comodamente un cartone animato.
Però dall’altra parte dello schermo c’è un professore, una persona che sottrae tempo alla propria famiglia per preparare video, audio, materiale didattico da sottoporre ai propri alunni cosicché questi continuino ad imparare senza ulteriori disagi e difficoltà. Insegnanti che si ritrovano a correggere i compiti fino alle due del mattino, che sono stati costretti a familiarizzare con programmi informatici di cui prima non conoscevano nemmeno l’esistenza, che non possono badare alle proprie famiglie e ai propri bambini perché la mole di lavoro è troppa. Perché se c’è una cosa che il lockdown ci ha insegnato è che il telelavoro in Italia è riassumibile con la frase “Tanto sei a casa, quindi puoi lavorare a qualsiasi ora”. Uno sfruttamento in piena regola, che sotto il nome di smart working, nasconde insidie che di “smart” non hanno assolutamente nulla.
Così, la categoria “protetta” degli insegnanti, comunemente indicati come quelli “dal lavoro stabile e dalle lunghe vacanze pagate”, in periodo di Coronavirus sono stati quelli per cui nessuno ha speso una parola di conforto o di gratitudine, che di certo non avrebbero riequilibrato l’onere professionale, ma, quantomeno, avrebbero alleviato il carico emotivo di chi si accolla la responsabilità di educare i nostri figli e di dare loro una cultura, unico vero passe-partout in una società piena di ostacoli e inganni.
E con la speranza che questa pandemia allenti la sua presa e ci restituisca la normalità, ad augurarsi che a settembre ci si ritrovi tra i banchi di scuola sono soprattutto i docenti, stanchi, ma sempre disponibili e in grado di offrire ai propri studenti calore umano e affetto anche attraverso lo schermo di un computer.
Anna Catalano