Tredici anni fa ci lasciava Tina Lagostena Bassi.
Conosciuta e apprezzata dal grande pubblico, grazie al documentario “Processo per stupro” trasmesso nel 1979 su Rai 2, la sua vita e il suo impegno furono sempre ispirati ai principi delle pari opportunità.
Attraverso quel documentario, gli italiani entrarono, per la prima volta, in un Tribunale in cui si celebrava il processo contro quattro uomini responsabili di aver violentato una ragazza, poco più che diciottenne, in una villa di Nettuno.
Purtroppo, all’opinione pubblica, fu subito chiaro che, per questo tipo di reati, il processo contro gli imputati si trasformava automaticamente in un processo contro la vittima.
Fiorella – questo il nome della ragazza – da vittima, diventava così “imputata”.
Si indagava, infatti, nella sua vita privata, nelle sue abitudini per screditarne la credibilità e alleggerire le colpe maschili, come, del resto avveniva sempre.
La Lagostena Bassi, durante le sue indimenticabili arringhe scardinò, a poco a poco, l’impianto maschilista che dominava i reati di tipo sessuale, in cui era sempre colpa o dell’arrendevolezza o della poca serietà della donna.
Siamo negli anni settanta, in strada si manifestava per importanti battaglie civili come il divorzio e l’aborto. Tina diventò un punto di riferimento delle donne.
Seguì come avvocata anche il processo sul “Massacro del Circeo” contro Angelo Izzo, difendendo Donatella Colasanti.
Quando venne trasmesso dalla Rai “Processo per stupro” gli italiani cominciarono a prendere coscienza dei pericoli di un sistema giudiziario e socio culturale sbagliato.
Queste le parole di una grande Lagostena Bassi, avvocata di parte civile:
«Vi assicuro, questo è l’ennesimo processo che io faccio, ed è la solita difesa che sento […]
Io mi auguro di avere la forza di sentirli, non sempre ce l’ho, lo confesso, la forza di sentirli, e di non dovermi vergognare, come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. Perché la difesa è sacra, e inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati—e qui parlo come avvocato—si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina come s’imposta un processo per violenza carnale.
Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali da difendere, ebbene nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori: dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!
Ecco, nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto. […]
Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna.»
Nel 1988 fu fra le fondatrici del Telefono Rosa, e una volta in Parlamento, nel 1996, si batté per l’approvazione della legge contro la violenza sessuale, che diventò finalmente reato contro la persona e non contro la morale.
Una svolta culturale epocale: a guidarla fu lei, dalla trincea dei Tribunali di provincia alla Camera dei deputati.