Trascorsa una settimana dalla chiusura del vertice G20 di Roma e scemati gli entusiasmi per l’eccellente organizzazione italiana dell’evento, possiamo fare un bilancio sulla effettiva rilevanza di quanto approvato dai leader delle 20 maggiori economie mondiali. Leggendo le 18 pagine della Dichiarazione finale, risalta subito il sovrabbondante utilizzo di verbi esortativi come incoraggiamo, diamo il benvenuto, sosteniamo, riaffermiamo. Ciò riflette la difficoltà di mettere d’accordo 20 soggetti – che sono, ricordiamolo, 19 Stati più l’Unione Europea – eterogenei e portatori di interessi diversi e spesso confliggenti tra di loro. Le decisioni effettive e gli impegni vincolanti sono stati infatti ben pochi. Ciò induce una riflessione sui benefici e i limiti del multilateralismo per il nostro Paese. Prima di farlo, vediamo quali sono state le decisioni sulle quali i Venti sono riusciti a raggiungere un accordo:
- Salute: al fine di raggiungere l’obiettivo di vaccinare almeno il 40 percento della popolazione mondiale entro la fine del 2021 ed il 70 percento entro la metà del 2022, i Venti si impegnano ad aumentare le forniture di vaccini e di presidi medicali ai Paesi in via di sviluppo.
- Assistenza ai Paesi vulnerabili: è approvata la nuova allocazione da parte del Fondo Monetario Internazionale di Diritti Speciali di Prelievo per 650 miliardi di dollari e si chiede al FMI di costituire un nuovo Fondo di Resilienza e Sostenibilità per i Paesi a basso reddito. Facendo seguito alla proroga nel rimborso del debito di 50 Stati per un ammontare totale di 12,7 miliardi di dollari, è approvata la proposta di concedere ulteriori facilitazioni da valutare caso per caso.
- Ambiente: si riconosce l’obiettivo a raggiungere la neutralità nella degradazione della terra entro il 2030 e ad una riduzione del 50 percento nella superficie di terra degradata entro il 2040, ma questo ultimo obiettivo verrà raggiunto su base volontaria. A tal fine si condivide l’obiettivo di piantare cumulativamente 1000 miliardi di alberi entro il 2030. Iniziativa dalla quale si è di fatto dissociata la Russia, che ha già il 20 percento delle foreste mondiali.
- Energia e Clima: si fissa l’obiettivo più ambizioso di contenimento della temperatura media globale a 1.5°C invece di 2°C. Ciò è quanto confermato dalla COP26 di Glasgow svoltasi in settimana. La quale conferma anche l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica intorno al 2050, seppure tenendo in considerazione i “diversi approcci”. In particolare quelli di Cina, Russia e Arabia Saudita che pongono l’obiettivo al 2060 e dell’India, che lo posticipa addirittura al 2070. Si riafferma l’impegno dei Paesi sviluppati a stanziare collettivamente 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 e fino al 2025 per aiutare i Paesi meno sviluppati nella lotta al cambiamento climatico.
- Si intensificheranno gli sforzi per l’eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili. Entro la fine di quest’anno si porrà fine al finanziamento di impianti termoelettrici a carbone da costruire all’estero. Ciò che ora anche la Cina si è impegnata a fare, sebbene continui nella costruzione di nuovi impianti a carbone in patria.
- Si richiede la attuazione di un mix di politiche, compresa la internalizzazione del costo della CO2. Questa misura è considerata determinante nella lotta al riscaldamento globale come dimostrato dal successo del meccanismo europeo dell’Emission Trading Scheme, fortemente sponsorizzato dalla Commissione ma la cui adozione da parte degli Stati sarà ancora su base volontaria.
- Si istituisce il Gruppo di lavoro sulla finanza sostenibile del G20 e il Piano per la Finanza sostenibile, il quale rimane però su base volontaria e flessibile.
- Al fine di avere dati coerenti e comparabili sui rischi alla stabilità finanziaria associati ai cambiamenti climatici, il Financial Stability Board promuoverà l’adozione di standard contabili internazionali per la misurazione e contabilizzazione delle grandezze finanziarie collegate al rischio climatico.
- Tassazione internazionale: viene approvata l’introduzione di un doppio pilastro entro il 2023. Il primo è la riallocazione dei profitti delle grandi multinazionali. Esso prevede che le multinazionali con fatturato mondiale superiore a 20 miliardi di euro (da ridurre a 10 miliardi dopo una prima fase di sperimentazione) e utili superiori al 10% del fatturato saranno sottoposte a tassazione nei Paesi in cui abbiano un fatturato di almeno un milione di euro. La base imponibile soggetta a tale tassazione locale sarà il 25% dei profitti oltre il margine di utile del 10%. Il secondo pilastro è l’aliquota fiscale globale minima, che interessa le multinazionali con almeno 750 milioni di euro di fatturato annuo alle quali si applicherà una aliquota minima di almeno il 15% in ogni Paese dove le multinazionali operano, indipendentemente dalla sede legale.
L’ambiente e i vaccini sono utilizzati dalle principali potenze come armi geopolitiche. La Russia non fa nulla per fermare il surriscaldamento globale e lo usa per ricattare il mondo, gli Stati Uniti lo usano per rallentare la crescita economica della Cina, quest’ultima e l’India cercano di posticipare il più possibile l’adozione di misure di contrasto.
Tuttavia, sebbene inferiori alle speranze che alcuni nutrivano alla vigilia del vertice, i risultati marcano qualche progresso nella introduzione di una tassazione minima internazionale, nella lotta alla pandemia, nella lotta al cambiamento climatico e negli aiuti ai Paesi in via di sviluppo.
Altre materie come le crisi regionali sono state affrontate nei numerosi incontri bilaterali che i leader hanno avuto a latere del G20, per loro natura gli incontri più produttivi. E questi non hanno avuto esiti felici per l’Italia.
Draghi ha incontrato dapprima Biden. Il Presidente americano non ha lesinato complimenti al nostro Presidente del Consiglio ed ha auspicato che rimanga alla guida del Paese, poco importa se da Palazzo Chigi o dal Quirinale. Per una serie di motivi: perché Draghi è la migliore garanzia per un utilizzo efficiente dei soldi del PNRR, di fatto prestati dalla Germania, senza che Roma entri (più di quanto già non sia) nella sfera di influenza tedesca. Perché Draghi è la migliore garanzia contro eventuali nuovi innamoramenti cinesi. Perché Draghi condivide la visione di Biden sullo “sdoppiamento” della NATO, in cui Italia e alleati europei occidentali si impegnino nel contenimento della Cina e delle minacce provenienti da Sud. Il problema è che secondo la visione americana l’impegno italiano in funzione anti-cinese dovrebbe spingersi fino alla partecipazione a missioni navali nell’Oceano Indiano, teatro non strategico per l’Italia. Né ci risulta che Biden abbia preso impegni a sostegno di Roma in funzione anti-turca nel teatro che a noi interessa di più: quello libico. Per gli USA poco cambia se a controllare la sponda Sud del Canale di Sicilia sia l’alleato italiano o quello turco.
Con queste premesse Draghi ha incontrato Erdogan, definito da lui l’8 aprile scorso un dittatore proprio nella speranza di segnalare all’America la necessità di arginare la prepotenza turca. Consapevole del risentimento di Washington nei confronti dell’intraprendenza turca nell’area mediterranea e facendo leva sulla ritrovata intesa italo-francese, Draghi ha provato a sondare il terreno per un ritiro turco dalla Libia. Ricevendone un niet dall’abile giocatore di Ankara, consapevole che gli USA hanno bisogno della Turchia per il contenimento della Russia nel Mar Nero e della indisponibilità della società italiana a rispondere con la forza alle azioni turche in Nord Africa.
Per questi motivi non possiamo rallegrarci degli esiti del G20 di Roma. Un Paese come l’Italia è condannato a promuovere fora multilaterali come il G20. Lo siamo per la nostra condizione. Siamo sì la settima economia del mondo e la seconda manifattura d’Europa, ma siamo fuori dai tavoli che contano. Non siamo uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, quelli che possono decidere su azioni per la sicurezza internazionale. Ma soprattutto non siamo percepiti come meritevoli di essere promossi ad un rango più elevato, come invece sono Germania, Giappone, India e Brasile. Non siamo nella cabina di regìa europea, prerogativa franco-tedesca. Non siamo una potenza atomica. Non siamo pronti ad usare la forza per difendere i nostri legittimi interessi nemmeno quando gli altri la usano contro di noi. Ciò che gli altri sanno bene e sfruttano a nostro svantaggio. Perciò non possiamo far altro che cercare di contenere le minacce – siano esse di sicurezza, economiche, migratorie o sanitarie – attraverso la promozione di relazioni internazionali “larghe” e trasparenti.
Nell’attesa che gli italiani prendano coscienza della necessità di diventare un Paese maturo, consapevole delle proprie responsabilità e degli oneri che questo comporta, ci accontentiamo della politica dei piccoli passi sul dossier dell’ambiente.
Gaetano Massara