Il tempo non è una grandezza assoluta. Esso non scorre alla stessa velocità in ogni luogo dello spazio. Vi sono società del Pianeta che sono proiettate nell’era virtuale mentre altre sono ancora legate da forti vincoli tribali. Il celebre olio di Salvador Dalì, “la persistenza della memoria”, ha focalizzato visivamente questo concetto. Ma anche all’interno della medesima società vi possono essere differenti livelli dell’attività umana i cui percorsi di sviluppo seguono traiettorie diverse. Uno di questi livelli è quello della Grundnorm, la legge di base su cui è costruito tutto l’edificio istituzionale e giuridico dello Stato. In quasi tutti gli Stati costituzionali accade che la Costituzione formale, cristallizzata in un testo scritto e quindi espressione del percorso storico, delle sensibilità e del posizionamento internazionale di una determinata collettività fino al momento della sua sottoscrizione, col passare del tempo e l’evoluzione della società nazionale e internazionale non riesca più ad esprimere un assetto istituzionale in grado di soddisfare in maniera adeguata i necessari requisiti di rappresentatività, governabilità ed efficienza. Per cui si manifestano “spinte in avanti” della Costituzione materiale che rispondono alle nuove esigenze della società e che producono uno scollamento sempre maggiore tra Costituzione formale e Costituzione materiale. Scollamento che l’attività di controllo di costituzionalità da parte della Corte suprema cerca di mantenere all’interno di un recinto di compatibilità con la Costituzione scritta. Tuttavia, può accadere che l’incapacità di quest’ultima di adeguarsi al progresso della società tramuti la Costituzione in una gabbia che invece di promuovere lo sviluppo della società lo inibisca.
Questo è il caso della Carta italiana del 1948. Durante la fase costituente i partiti temevano di poter essere emarginati ed estromessi qualora si fossero venuti a trovare all’opposizione. Per questo motivo concepirono un’architettura istituzionale con molteplici pesi e contrappesi, sia tra gli organi dello Stato che tra questi e gli enti locali. Questo complesso sistema di veti incrociati si è tramutato nella formazione di maggioranze deboli e instabili, ha determinato la frequente caduta dei governi e l’elevato numero di esecutivi nella storia repubblicana: 64 governi in 18 legislature, con una media di 3,5 governi per legislatura ovvero una durata media dei governi di 1 anno e 2 mesi. Se questa paralisi istituzionale non ha impedito al Paese reale di bruciare le tappe fino a diventare la quarta potenza economica mondiale negli anni ’80, già al giro di boa degli anni ’90 si sono manifestati in tutta la loro evidenza i limiti della Carta del dopoguerra.
Dal 1948 il mondo è cambiato radicalmente. Non solo è venuta meno la rassicurante protezione della cortina di ferro e dell’importanza strategica della Penisola italiana come argine verso Est ma sono intervenute nuove minacce: le guerre asimmetriche rappresentate dal radicalismo islamico, dal terrorismo, dai cyber-attacchi, dalle migrazioni e il loro utilizzo ricattatorio a fini geopolitici; l’emergere di nuovi attori dall’atteggiamento esplicitamente assertivo e determinati a ritagliarsi ampie sfere di influenza (non solo la Cina ma anche la Turchia e l’Iran) accanto agli attori tradizionali determinati a conservare il loro rango di potenza (Russia, Francia, Gran Bretagna); la velocità con cui le informazioni, le tecnologie e gli scambi viaggiano. Occorre quindi tenere conto delle sopravvenute necessità di modernizzazione richieste dalle sfide politiche ed economiche del nuovo secolo.
Pur all’interno di cornici multilaterali come l’ONU e l’UE, tutto ciò necessita di una capacità di risposta degli Stati adeguatamente efficiente e veloce. Ciò di cui lo Stato italiano attualmente non dispone ma di cui sono dotati i nostri principali partner-concorrenti. In primis la Francia, la quale aveva già adottato un assetto semipresidenziale con il passaggio alla Quinta repubblica del 1958 proprio per ovviare ai problemi di instabilità dei governi del precedente sistema parlamentare. Assetto che è stato reso ulteriormente efficiente con la riforma costituzionale del 2002, la quale ha ridotto la durata della carica presidenziale a cinque anni per uniformarla a quella del parlamento ed ha stabilito che le elezioni dirette del presidente e dell’organo legislativo devono avvenire a breve distanza temporale per evitare il verificarsi di possibili coabitazioni tra presidenti e governi di colori diversi. E di cui dispone anche la Repubblica Federale di Germania, seppure nel senso di una concentrazione dei poteri nella figura del cancelliere ai danni del presidente della Repubblica. E di cui dispongono le monarchie costituzionali parlamentari del Regno Unito e del Giappone, in cui il monarca-Capo dello Stato si limita ad avere un ruolo cerimoniale e tutto il potere esecutivo risiede nel Primo ministro ed il governo.
Il “complesso del tiranno” che, giustamente o ingiustamente, affliggeva i nostri padri costituenti e che trova costituzionale rappresentazione nella diminutio capitis dell’esecutivo, oggi non ha più ragion d’essere ma sembra piuttosto un alibi per conservare rendite di posizione. Anzi, essa è non solo una delle cause del ritardo italiano ma fornisce anche leve di manovra a chi dall’esterno voglia interferire negli affari italiani. La riforma della Costituzione, il «trattato di pace fra Stati diversi» (Costantino Mortati) vincitori contro di noi e «rappresentati dai loro partiti in Italia» (Lucio Caracciolo), per dotare lo Stato di un impianto istituzionale che consenta quella velocità ed efficacia delle decisioni necessaria per governare il Paese e consentirgli di competere non è quindi più a lungo prorogabile.
Come sottolineò Giuliano Amato nel 2014, «la Costituzione italiana, in qualsiasi modo la si giudichi, sia la più bella o la più brutta, è in ogni caso rimasta uguale a sé stessa, irrimediabilmente invecchiata fra le costituzioni europee, bloccata su pregiudizi datati e ormai fuori corso».
Per tutte queste ragioni la nostra gloriosa Lancia Flavia ha bisogno di una sostituzione di parti importanti che le consenta di competere nel gran premio mondiale contro i bolidi della Formula Uno attraverso il passaggio ad un sistema presidenziale o semipresidenziale.
L’accordo del 1995 tra Berlusconi e D’Alema per un semipresidenzialismo di tipo francese accompagnato da un sistema elettorale a doppio turno, paradossalmente avvenuto con l’avallo di Oscar Luigi Scalfaro, rappresenta uno dei tentativi più nitidi di riforma in senso semipresidenziale dell’ordinamento dello Stato.
Ma anche il Messaggio alle Camere di Cossiga del giugno 1991, il frequente rinvio di leggi alle Camere e di decreti legislativi al governo da parte di Ciampi, la aperta difesa da parte di quest’ultimo dell’unitarietà dello Stato e la sua opposizione a riforme federaliste, nonché l’esplicito sostegno di Napolitano al referendum costituzionale del 2016 sono accomunate dalla difesa da parte di Presidenti diversi delle prerogative proprie del Presidente della Repubblica e rientrano nel solco dei tentativi di riforma profonda della Costituzione. Tentativi che spesso non sono andati a buon fine a causa della litigiosità italica e dell’elevata politicizzazione strumentalmente ed erroneamente attribuita ad essi.
Le prossime elezioni del Presidente della Repubblica possono rappresentare l’occasione per avviare questo processo di modernizzazione della Costituzione in senso presidenziale o semipresidenziale. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha accentrato su di sé i poteri esecutivi chiave e di garanzia sui ministri, ergendosi di fatto a vero e proprio Primo ministro più che a un primus inter pares. Con il suo eventuale trasloco al Quirinale porterebbe inevitabilmente con sé anche la sua credibilità internazionale e la sua autorevolezza con il risultato che godrebbe di un potere di interdizione sul suo successore a Palazzo Chigi. In altre parole, il prossimo esecutivo si configurerebbe come governo del Presidente, bicefalo e responsabile davanti al Presidente esecutivo e al Parlamento. Sarebbe un’evoluzione positiva del quadro istituzionale, più snello ed efficiente di quello attuale. Il problema sarebbe che, terminata in un modo o nell’altro l’era Draghi, tutto rischierebbe di tornare come prima.
Questione conseguente sarebbe quella della figura del nuovo Presidente del Consiglio. La nomina da parte di Draghi di una personalità tecnica sarebbe un ulteriore smacco per i politici di professione. A meno che questi non preferiscano il compromesso al ribasso del mal comune mezzo gaudio. La nostra classe politica è chiamata ad un sussulto di responsabilità, per condurre in porto la riforma semipresidenziale e per assumersi le responsabilità che i cittadini le hanno assegnato. Ci riusciranno?
Gaetano Massara