Dottrina della “preziosa solitudine” contro dottrina della “pace in casa e nel mondo”. Recep Tayyip Erdogan contro Kemal Ataturk. Il “nuovo sultano”, conservatore e filo-islamista, contro il fondatore della Turchia moderna, repubblicana e secolarizzata. Divisi sul piano valoriale e politico, ma uniti dallo stesso fervente nazionalismo. Gli avvenimenti delle ultime settimane sembrerebbero ricondurre Erdogan verso la dottrina del padre della repubblica turca.
Erdogan governa la Turchia dal 2003, inizialmente come Primo ministro, dal 2014 come Presidente. L’accentramento progressivo del potere nelle mani del Presidente-dittatore ha raggiunto il suo culmine con la riforma della Costituzione turca approvata da un referendum popolare nel 2017, in forza della quale la figura del Primo ministro è stata eliminata ed il Presidente è divenuto capo dello Stato e del governo. La politica estera e la politica economica sono due materie su cui il nuovo sultano esercita estensivamente il proprio potere. E che mai come in questo periodo sembrano essere strettamente legate.
La spinta inflazionistica che ha colpito l’economia mondiale non ha risparmiato la Turchia. Secondo le statistiche ufficiali, controllate da Erdogan, il Paese euroanatolico è entrato nel nuovo anno con un’inflazione del 26%, mentre secondo molti osservatori avrebbe raggiunto addirittura il 50%. La stangata non è dovuta solo al rincaro delle bollette energetiche ma anche all’aumento delle tasse, dei pedaggi e dei generi di prima necessità, compresi quelli alimentari. A pagarne lo scotto sono soprattutto i ceti meno abbienti e la classe media, che vede assottigliarsi i propri salari reali e i risparmi.
La ricetta di politica economica concepita da Erdogan in risposta all’elevata inflazione è stata anche questa volta di “solitudine”, cioè in controtendenza rispetto alla politica economica convenzionalmente applicata in questi casi. I fatti diranno se tale solitudine è anche “preziosa”, ma gli sviluppi non sembrano dare ragione al leader turco. Mentre altre economie emergenti aumentavano i tassi di interesse per raffreddare la febbre inflazionistica e prevenire crisi valutarie, la banca centrale turca controllata dal presidente operava quattro tagli al tasso di interesse, portandolo dal 19% al 14%. La erdoganomics è basata sul convincimento che l’inflazione sia l’effetto di alti tassi piuttosto che la causa che li esige, che alti tassi scoraggino gli investimenti e incoraggino la speculazione, e che una valuta debole renda più competitive le esportazioni favorendo la crescita e l’occupazione. Per dare giustificazione politica alla sua dottrina, Erdogan accusa la “lobby dei tassi di interesse” controllata da potenze straniere e invoca un’insurrezione islamica contro l’usura affermando che “i tassi di interesse rendono i ricchi più ricchi e i poveri più poveri”. I critici interni della erdoganomics sono stati rimossi: dopo aver messo sotto il suo controllo la banca centrale, Erdogan dal 2019 ha sostituito ben quattro governatori e tre ministri delle finanze.
Fatto sta che il taglio dei tassi ha innescato una fuga dei risparmi dalla lira turca e una dollarizzazione dei depositi bancari, che a sua volta ha provocato una svalutazione della lira turca. A fine anno i depositi in valuta estera avevano superato il 64% del totale dei depositi mentre la lira turca si era deprezzata di circa il 60% nei confronti del dollaro rispetto ad agosto.
La contro-risposta erdoganiana è arrivata il 20 dicembre scorso con l’approvazione di una garanzia statale sui depositi in lire turche: se i risparmiatori mantengono la denominazione dei loro depositi in lire per almeno tre mesi, il ministero del tesoro li compenserà di eventuali perdite di valore della lira. A seguito di questa misura la lira ha recuperato di valore solo parzialmente, riducendo la perdita a circa il 40% rispetto ad agosto. In realtà il parziale recupero è stato possibile solo grazie ad un massiccio acquisto di lire da parte della banca centrale, che dall’inizio di dicembre ha convertito riserve in valuta estera per circa 20 miliardi di dollari.
La doppia misura riduzione dei tassi-garanzia sui depositi rappresenta un grave rischio per l’economia turca e potrebbe sortire effetti pericolosi. Secondo The Economist, nello scenario più favorevole in cui il valore della lira dovesse stabilizzarsi, l’aumento dei prezzi non sarebbe compensato da una lira più debole. Ciò eroderebbe la competitività della produzione interna compromettendo l’equilibrio della bilancia commerciale e rendendo il Paese troppo dipendente dai capitali esteri. Nello scenario peggiore di un fallimento totale delle misure adottate, invece, i contribuenti turchi verrebbero chiamati a coprire le perdite dei detentori dei depositi garantiti. Ciò avrebbe un effetto redistributivo opposto a quello che Erdogan proclama a parole, in quanto avvantaggerebbe quelle fasce di popolazione più ricche che sono riuscite ad accumulare risparmi.
In particolare, il salvataggio dei depositi ad opera dei contribuenti turchi potrebbe avvenire o attraverso un aumento delle tasse, o attraverso tagli alla spesa pubblica oppure pompando nell’economia moneta di nuova emissione. Opzione quest’ultima che si tradurrebbe in un’ulteriore svalutazione della lira. Inoltre, se una porzione significativa dei risparmi privati, equivalenti a circa 300 miliardi di dollari di valore, dovesse essere convertita in depositi garantiti, la sostenibilità delle finanze pubbliche turche sarebbe a rischio, specialmente nel caso di una nuova crisi valutaria.
Calo dei consensi
L’elevata inflazione e la crisi valutaria auto-indotta stanno incrinando pericolosamente la popolarità di Erdogan. Secondo gli ultimi sondaggi, se si andasse al voto oggi, il nuovo sultano verrebbe battuto sia dal sindaco di Ankara che da quello di Istanbul. La riduzione dei tassi e le garanzie ai depositi in valuta locale si possono spiegare anche come un disperato tentativo di economia elettorale, cioè di rivitalizzare l’economia in vista delle elezioni del giugno 2023.
Ripercussioni sulla politica estera turca
Per tranquillizzare i mercati Erdogan ha bisogno di afflusso di capitale fresco attraverso investimenti esteri. Inoltre, non può permettersi una politica estera aggressiva. Almeno fino a quando la crisi inflattivo-valutaria non sarà rientrata. Si spiega così la distensione avviata con numerosi Stati della regione. Dalla normalizzazione delle relazioni con l’Egitto, avviata dalla scorsa primavera quando sono comparsi i primi segnali della crisi della lira turca e accompagnata dalla censura dei media della Fratellanza musulmana operanti in Turchia; alla riconciliazione con gli Emirati arabi uniti; all’ammorbidimento delle relazioni con l’Armenia, con cui i rapporti diplomatici sono ufficialmente interrotti dal 1993, anno in cui l’Armenia conquistò il Nagorno-Karabach, e che hanno avuto un ulteriore peggioramento nel 2020, quando Ankara ha sostenuto l’Azerbaigian nella riconquista della regione caucasica; alla ricerca di una riconciliazione con Israele, con la quale Ankara aveva interrotto le relazioni dal 2011 in sostegno alla causa palestinese e perseguita attraverso la chiusura della sede di Hamas a Istanbul; alla riconciliazione con l’Arabia saudita e il principe ereditario bin Salman, accusato dalla Turchia di aver ordinato l’assassinio del giornalista saudita Kashoggi nel consolato saudita di Istanbul nel 2018; alla distensione delle relazioni con l’Unione europea, esplicitamente auspicata da Erdogan nelle settimane scorse dopo la crisi innescata dallo sgarbo fatto dal leader turco alla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in occasione della visita di quest’ultima ad Ankara la primavera scorsa.
L’opportunità per l’Italia
Lo stato di bisogno della Turchia schiude opportunità inaspettate per l’Italia. In particolare in Tripolitania, dove la Turchia si è insediata dalla fine del 2019 e da dove può minacciare l’Italia e l’Europa utilizzando l’arma di ricatto dei migranti o l’accordo turco-libico che estende le zone economiche esclusive dei due Paesi rendendole confinanti a scapito di altri Stati.
D’altra parte, lo slittamento delle elezioni libiche e la recente visita ad Ankara di una delegazione della Camera dei Rappresentanti libica indicano che la situazione nel Paese sulla sponda Sud del nostro mare è in evoluzione. Ricordiamo che la Camera dei Rappresentanti libica, conosciuta anche come Parlamento di Tobruk, è espressione dei gruppi di potere e delle tribù che controllano la Cirenaica e che finora hanno sostenuto le ambizioni del generale Kalifa Haftar contro le autorità di Tripoli. La Cirenaica è inoltre controllata militarmente dalla Russia, che ha finora sostenuto Haftar.
L’invito rivolto dai parlamentari di Tobruk agli omologhi turchi alla riapertura del consolato generale turco di Bengasi – principale centro della Cirenaica – potrebbe indicare una grave frattura tra gli alleati cirenaici. Essi non sembrano più essere concordi nel sostegno ad Haftar. Ma ciò che più conta da una prospettiva italiana è che con la loro missione ad Ankara si sono posti sotto l’egida della Turchia, la quale rafforza ulteriormente la propria posizione nell’ex Quarta sponda.
L’Italia ha l’opportunità di riaprirsi uno spazio in Libia, preferibilmente attraverso un accordo con i libici eventualmente allargato alla Turchia. L’obiettivo finale potrebbe essere un condominio con Ankara. I mezzi non ci mancherebbero. La Turchia ha bisogno delle risorse tecnologiche ed industriali delle nostre partecipate, da Leonardo ad Eni ad Enel. La Libia ha dimostrato di apprezzare la nostra presenza, come quando nel 2019 il governo di Tripoli ci chiamò in soccorso – da noi declinato – a respingere l’offensiva di Haftar. La nostra classe politica sarà in grado di cogliere l’opportunità?
Gaetano Massara