«Sì com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna». Così Dante, rifacendosi alla delimitazione politico-amministrativa dell’Italia di Augusto, fotografa il confine geografico orientale della penisola italiana. Senza peraltro tener conto del fattore storico e culturale, che già dai tempi di Roma e poi della Repubblica di Venezia, avrebbe esteso alla Dalmazia il raggio di influenza degli Italiani.
E’ su queste premesse che il Trattato di Roma del 27 gennaio 1924 tra il Regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni aveva portato a conclusione i negoziati per la definizione del confine orientale seguiti alla fine della Prima guerra mondiale. L’Italia estendeva la propria sovranità all’Istria, Fiume, Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa.
Rimaneva il mito della vittoria mutilata, maturato in seguito al rifiuto degli alleati di dare attuazione letterale alle promesse fatte all’Italia per indurla ad entrare in guerra al loro fianco. L’uso di tale mito da parte di Mussolini e la scellerata aggressione dell’Italia fascista alla Jugoslavia nell’aprile 1941 determinava l’annessione al Regno d’Italia di tutta la Dalmazia settentrionale, compresa Spalato, e di parte della Slovenia, compresa Lubiana.
La vendetta titina sarebbe stata spietata e sproporzionata. L’opera di italianizzazione portata avanti dal regime fascista nei territori occupati trovò il suo ben più duro corrispettivo nell’opera di de-italianizzazione e slavizzazione forzata. Ne furono vittime gli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia, discendenti di quei veneziani che avevano abitato la regione per secoli. Ufficialmente responsabili di essere fascisti o complici del regime fascista, in realtà colpevoli di essere italiani e di non voler rinnegare la propria italianità. L’equivoca equazione “italiano uguale fascista” e quindi da eliminare, fu un terribile quanto efficace strumento di propaganda titino-comunista la cui èco purtroppo risuona talvolta ancora oggi in persone influenzate da una storiografia di parte. Tale propaganda giustificò la pulizia etnica perpetrata a danno degli italiani. E tale equazione è un falso storico. Seppur l’adesione al fascismo in Italia, e quindi anche nei territori istriano-dalmati del Regno d’Italia, sia stata un fenomeno diffuso, quell’equazione non tiene. Sia perché non tiene conto degli oppositori al regime, sia soprattutto perché non considera tutti quegli italiani “silenziosi” che subirono il regime fascista senza aderirvi o sostenerlo apertamente. L’enorme schiera di vittime italiane innocenti fu il capro espiatorio su cui il regime titino attuò con ferocia il proprio progetto di de-italianizzazione e slavizzazione della regione. E che purtroppo trova sponda nell’inazione e complicità mascherata da malinteso europeismo di parte della politica italiana. Proviamo a spiegare come si è arrivati a ciò.
Le truppe iugoslave entrarono a Trieste il 1° maggio 1945 e a Fiume due giorni dopo. Trieste subisce un’occupazione di una crudeltà estrema, che durerà 43 giorni. L’occupazione iugoslava era seguita alla sollevazione della città contro l’occupante tedesco. L’insurrezione contro i tedeschi fu capeggiata dal Colonnello Antonio Fonda Savio e da un religioso, Don Edoardo Marzari. Tra le migliaia d’insorti vi furono i rappresentanti dei risorgenti partiti politici italiani e molti militari dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, e della Guardia Civica. Fra loro non c’erano comunisti i quali, in obbedienza ad una direttiva di Togliatti, da tempo si erano staccati dal Comitato di Liberazione Nazionale e agivano inseriti nel Comitato Esecutivo Antifascista Italo-Sloveno, operante a favore del Fronte di Liberazione Sloveno. I Volontari della Libertà presero il controllo della città la sera del 30 aprile.
In quelle stesse ore si verificava la corsa verso Trieste. Le milizie jugoslave del IX Corpus Sloveno giunsero a Trieste a marce forzate per precedere gli anglo americani. Fin dai primi contatti si avvertì che i titini non erano migliori dei tedeschi. Dopo aver disconosciuto i Volontari della Libertà, costringevano i partigiani del CLN a rientrare nella clandestinità. Per contro, bandiere rosse con falce e martello e Tricolore con stella rossa al centro vennero imposti ovunque. Le prime truppe occidentali a raggiungere Trieste furono i neozelandesi, che trovando il centro urbano occupato si sistemarono alla meno peggio.
Gli Slavi imposero il coprifuoco dalle 15 alle 10 e disposero il passaggio all’ora legale per uniformare la città al “resto della Jugoslavia”. Fecero uno smaccato uso dello slogan “Morte al Fascismo – Libertà ai popoli” per giustificare la licenza di uccidere chi si suppone possa opporsi alle mire annessionistiche di Tito. Diedero carta bianca alla polizia politica, l’OZNA, di prelevare dalle case i cittadini – in media cento al giorno – pochi fascisti o collaborazionisti, ma molti combattenti della guerra di liberazione. Arresti indiscriminati, confische, requisizioni, violenze d’ogni genere. Nel mese e mezzo di occupazione iugoslava scomparvero circa 4.500 persone. L’otto maggio proclamarono Trieste “città autonoma” nella “Settima Repubblica Federativa di Jugoslavia”.
A Fiume, sul finire della guerra gli autonomisti avevano pensato alla restaurazione di una autonomia sulla falsariga di quella del Corpus Separatum dei tempi della monarchia ungherese. Subito dopo la conquista della città, la Lega dei Comunisti di Iugoslavia aveva promesso la concessione di una larga autonomia alla municipalità, e gli autonomisti avevano riportato una vittoria alle prime elezioni dei comitati cittadini. Poco dopo, non appena il governo titino si era assicurato un saldo controllo sul Paese, i comunisti avviarono una epurazione di cui gli autonomisti furono le prime vittime attraverso fucilazioni di massa, arresti, licenziamenti, riunioni politiche ufficialmente anti-fasciste ma in realtà anti-italiane. Moltissimi Fiumani italiani, preferendo l’esilio volontario fondarono il Libero Comune di Fiume in esilio.
Circa 600 persone vennero giustiziate. Tra essi sia alcuni vecchi podestà fascisti, sia i capi del Movimento Autonomista Liburnico sebbene alcuni di essi siano notoriamente antifascisti – anche l’ebreo antifascista reduce da Dachau Angelo Adam, membro del CLN fiumano – come pure il dirigente comunista fiumano Rodolfo Moncilli, ucciso dall’OZNA nell’ambito del tentativo del Partito Comunista Croato di annientare il Partito Comunista Fiumano. La stragrande maggioranza della popolazione italiana di Fiume fuggì dalla città fra il maggio del 1945 e il 1948. Alla fine degli anni ‘40 Fiume sarà ripopolata massicciamente con abitanti provenienti dalle più disparate regioni della nuova Jugoslavia di Tito.
Zara era invece già stata violentata durante la guerra, quando Tito aveva chiesto agli Alleati di bombardarla per facilitarne l’occupazione jugoslava e la pulizia etnica anti-italiana.
Il ministro dell’Interno di Tito, Aleksandar Ranković, subito dopo la fine della guerra dichiarerà di fronte al Parlamento di Belgrado che le persone fucilate dopo “regolare” processo furono 581.000, comprendenti italiani ed altri anti-titini.
La fase dalla presa di Trieste al 1948 fu caratterizzata da una forte contrapposizione tra il blocco occidentale e quello comunista. Per arginare l’avanzata comunista gli Alleati sostennero parte delle richieste italiane, in particolare di evacuazione della città dalle forze di occupazione titine.
Gli Angloamericani, bisognosi di disporre del porto di Trieste, intimarono alle truppe slave di ritirarsi aldilà della “Linea Morgan”. Il 9 giugno a Belgrado, il Leader iugoslavo, verificato che Stalin non era disposto a sostenerlo, fece arretrare le sue truppe. Il 12 giugno del 1945 l’evacuazione ebbe termine. Ma prima d’andar via presero tutto ciò che riuscirono a caricare sui loro mezzi. Ripulirono la Banca d’Italia, prelevando 183 milioni di lire. Ma in città rimanevano gli irriducibili.
Alla conferenza della pace di Parigi, il Ministro degli Esteri De Gasperi reclamò l’applicazione del principio della nazionalità nella definizione del confine, basandola sul fatto che già nel 1910 la popolazione di Trieste era costituita per il 51% da italiani. In particolare, chiese che il confine fosse posto lungo la linea proposta dal presidente Wilson nel 1919, che avrebbe lasciato all’Italia l’Istria sud-occidentale, con Fiume e Zara città autonome.
Il segretario di Stato americano Byrnes, sostenuto dal ministro sovietico Molotov, propose invece l’indizione di un plebiscito. Ma De Gasperi vi si oppone, perché ciò implicherebbe l’indizione di un analogo plebiscito in Alto Adige, con il probabile esito sfavorevole all’Italia.
La soluzione decisa dalla conferenza decise alla fine di fissare il confine sulla linea suggerita dal ministro degli esteri francese Bidault, cioè sulla linea Tarvisio-Monfalcone, mentre la soluzione definitiva alla questione di Trieste venne posticipata adottando la soluzione proposta da Molotov dell’internazionalizzazione della striscia costiera di Trieste, che andò a costituire il Territorio Libero di Trieste (TLT) suddiviso in due zone: la zona A, occupata dagli Anglo-americani, e la zona B, occupata dagli Iugoslavi. In realtà il TLT non era un territorio “libero” ma divenne la versione adriatica della cortina di ferro. Inoltre, mentre per la zona A il territorio degli Stati occupanti si trovava a migliaia di km da Trieste, il territorio dello Stato occupante la zona B e che aspirava esplicitamente ad annetterlo è confinante con il TLT.
Per tentare di sbloccare la situazione di Trieste, alla vigilia delle elezioni italiane del marzo 1948, i governi di Usa, Inghilterra e Francia pubblicarono una Dichiarazione tripartita proponendo all’Urss il ritorno del TLT all’Italia, proposta rifiutata da Mosca.
La fase che va dal 1948 al 1954 aggiunse un ostacolo ulteriore e pericolosissimo per l’Italia: l’avvicinamento della Iugoslavia al blocco occidentale. Infatti, nel giugno del 1948 Tito uscì dal Cominform e ruppe con l’Urss.
I tre alleati occidentali lasciavano cadere la Dichiarazione tripartita e intraprendevano una serie di iniziative per attirare la Iugoslavia nella propria sfera, concedendo a Belgrado prestiti e discutendo addirittura dell’opportunità di includerla nella Nato. Venne alla fine deciso di aiutare il Paese a modernizzare i suoi armamenti senza invitarlo ad aderire al Patto atlantico.
L’Italia invece veniva a trovarsi nel mezzo di una crisi di governo seguita alla caduta del governo De Gasperi. Presidente del Consiglio divenne Giuseppe Pella, privo di una maggioranza parlamentare. Cogliendo l’occasione di un raduno di partigiani iugoslavi a Capodistria e della cattiva traduzione americana di una nota jugoslava in cui si ventilava un cambiamento nell’atteggiamento di Belgrado verso la Zona B, Pella inviò truppe al confine; misura prontamente replicata da Belgrado.
Lanciando un messaggio di fermezza a Tito e internazionalizzando la crisi, Pella intendeva spezzare la nascente intesa tra Iugoslavia e Usa e dimostrare che l’inclusione della Iugoslavia in un progetto di pacificazione dell’Europa non sarebbe stato possibile fino a quando l’Italia non fosse rientrata in possesso della città. La mossa italiana ottiene gli effetti sperati. Nasce così la Nota bipartita dell’8 ottobre 1953 con cui gli angloamericani sciolsero il Territorio Libero di Trieste – che non era mai stato realizzato – liberando la zona A e assegnandola all’Italia e dando definitivamente la zona B alla Iugoslavia.
Tuttavia, la Nota rendeva il quadro ancora più complesso: se agli italiani venne suggerito di ritenere questa misura provvisoria e non esclusiva rispetto alle rivendicazioni sulla Zona B, agli Jugoslavi venne garantito lo stesso rispetto alla zona A. Quando il governo italiano si dichiarò pronto a rientrare a Trieste, si verificarono attacchi contro le ambasciate italiana, americana e britannica a Belgrado.
E’ in questo frangente che a Fiume, nella notte tra il 9 e il 10 ottobre 1953, la folla aizzata durante un comizio anti-italiano distrusse le insegne in lingua italiana di negozi ed edifici pubblici, portando alla soppressione violenta del plurisecolare uso pubblico dell’italiano nel capoluogo quarnerino.
Tito minacciò di entrare nella zona A se le truppe italiane vi fossero entrate e ammassò truppe alle frontiere con la zona A. L’obiettivo delle provocazioni di Tito era quello di innalzare la tensione in città nella speranza di suscitare un casus belli tale da giustificare l’invasione della Iugoslavia nella zona A.
Un ulteriore smacco alle aspettative italiane arriva dalla Conferenza di Londra, la quale decise la sospensione della Nota bipartita con l’effetto di accrescere il risentimento degli Italiani nei confronti di inglesi e americani, i primi ormai apertamente in favore di una soluzione iugoslava, i secondi in una posizione più intermedia.
E’ in questo clima che matura l’insurrezione di Trieste. Quando, il 3 Novembre 1953, in occasione del trentacinquesimo anniversario del ritorno di Trieste all’Italia il sindaco issa il Tricolore dal pennone del Municipio contravvenendo al divieto del Generale Winterton, questi lo fa rimuovere. Dal 3 al 6 novembre si susseguono manifestazioni popolari per l’italianità della città seguite da repressioni degli occupanti britannici, in una escalation che termina con la decisione di Winterton di tenere le truppe di occupazione nelle caserme e chiedere agli Alleati di pervenire ad una soluzione alla questione di Trieste. Soluzione che viene trovata con il Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954: la Zona A con la città di Trieste e il suo porto passano dall’amministrazione militare alleata all’amministrazione civile italiana, mentre la Zona B passa dall’amministrazione militare all’amministrazione civile jugoslava. Il passaggio dei poteri nella Zona A avvenne il 25 ottobre 1954.
Contestualmente, dietro forti pressioni di Tito viene disposta una modifica di confine tra le due zone. La nuova Zona B viene così ampliata di circa 11,5 km² ed i 3.500 abitanti di Crevatini, Plavia, Elleri ed Albaro Vescovà vengono soggetti all’amministrazione del governo jugoslavo: parte di essi esoda in Italia.
Ma il Memorandum di Londra rappresentava una sistemazione provvisoria, in quanto non sanciva la sovranità dei territori ma solo il diritto alla loro amministrazione.
Nonostante le irrisolte questioni del confine definitivo e dei beni degli esuli, ciò non impedì all’Italia di perseguire una politica di appeasement nei confronti della Jugolavia titina. Tanto è che il 2 ottobre 1969 il Presidente Saragat insignì il boia croato del titolo di Cavaliere di Gran croce al merito della Repubblica italiana, e negli anni successivi un’altra ventina di infoibatori tra cui Mitja Ribicic, Franjo Rustja e Marko Vrhunec vennero omaggiati con gli stessi onori.
Fu invece il trattato di Osimo del 10 novembre 1975 a congelare i confini fra i due Stati sancendo il passaggio di sovranità sulle rispettive zone amministrate. Esso manteneva in vigore – almeno sulla carta – le misure interne già adottate in applicazione del Memorandum di Londra a tutela degli italiani nell’ex zona B e degli sloveni nell’ex zona A. Inoltre, riconosceva importanti concessioni economiche ed infrastrutturali senza contropartite, e concedeva la pensione a cittadini jugoslavi che avevano combattuto contro l’Italia, ivi compresi agli assassini di tanti italiani. Si calcola che l’INPS abbia erogato circa 30 mila pensioni privilegiate a questi soggetti.
Il trattato di Osimo venne aspramente avversato dalle popolazioni coinvolte, soprattutto dagli esuli italiani. Oltre all’imperativo della distensione internazionale, il tradimento di un trattato negoziato e firmato in tutta segretezza si spiegava con la necessità di evitare il ripetersi delle insurrezioni del 1953 che avevano forzato gli eventi e con il prevalere all’interno della DC della corrente di Moro, sostenitrice di una linea morbida sulla questione del confine, contro la corrente di Fanfani. Peccato che la dolorosa rinuncia non avesse contropartite.
La frustrazione degli italiani istriano-fiumano-dalmati era ben comprensibile. Oltre all’arrendevolezza del governo sulla questione del confine, essi dovettero subire la beffa di scoprire che per la prima volta nella storia della Repubblica italiana un trattato internazionale afferma l’esistenza di una etnìa italiana (oltreconfine e da tutelare). Si capiva che il trattato di Osimo era stato negoziato da chi non conosceva la realtà dell’arcipelago Adriatico orientale né tantomeno della peculiarità degli italiani di quella regione. Il funzionario del Ministero dell’industria (!) incaricato di condurre i negoziati con gli jugoslavi – Eugenio Carbone – evidentemente non sapeva che l’elemento caratterizzante degli italiani della sponda Est dell’Adriatico non è l’etnìa, ma la lingua e la cultura. L’italianità di quella gente non è, o almeno non è in misura prevalente, un fatto di sangue quanto piuttosto una scelta. L’elezione della cultura di Roma, Venezia e d’Italia come cultura di appartenenza. Così si spiegano i cognomi slavi di molti italiani.
Senza il suicidio di Osimo, con la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell’ex Jugoslavia avvenute 16 anni più tardi, l’Italia avrebbe potuto avere un potere contrattuale maggiore con i vicini orientali. Se almeno avesse avuto una politica estera coerente. Invece, mentre il governo di Roma attraverso il Ministro degli esteri De Michelis perseguiva la politica del mantenimento dell’integrità di una Jugoslavia indebolita e dipendente dai finanziamenti italiani, i Presidenti delle Regioni Friuli Venezia Giulia e Veneto intrapresero iniziative autonome finalizzate a forzare il riconoscimento delle indipendenze slovena e croata.
Le quali indipendenze determinarono la separazione degli italiani di Istria tra due Stati.
La dissoluzione della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia (RFSJ) portò alla ribalta la questione della successione al trattato di Osimo. La nuova Repubblica Federale di Jugoslavia, ridotta ai territori di Serbia e Montenegro, veniva riconosciuta come Stato successore della RFSJ. Molti giuristi ed esponenti politici ritenevano che Croazia e Slovenia non dovessero essere considerate come Stati successori della RFSJ e pertanto ritenevano il trattato decaduto, almeno in relazione ai rapporti tra l’Italia e le due nuove repubbliche. Ciò riapriva la questione della tutela degli italiani oltreconfine e, in prospettiva, l’opportunità della negoziazione di un “nuovo” trattato di Osimo.
Invece, nel gennaio 1992, alla vigilia del riconoscimento dell’indipendenza di Slovenia e Croazia, Roma si limitò a firmare un memorandum con Zagabria in cui si stabiliva che la legislazione sulla minoranza italiana sarebbe stata disposta sulla base di accordi futuri. Lubiana si rifiutò di sottoscrivere il memorandum col pretesto della mancanza di reciprocità nel riconoscimento di seggi riservati alla minoranza slovena nel Parlamento di Roma. Pretesto che fu contestato dallo stesso Ministero degli esteri italiano Colombo in quanto riferentesi a «realtà storiche e politiche molto diverse». Nessun accenno, invece, da parte del governo italiano ad una eventuale revisione dei confini. Nonostante i dineghi sloveni ed il limitato perimetro degli eventuali accordi futuri con la Croazia, il governo italiano accettò le richieste di Slovenia e Croazia di essere considerate Stati successori della RFSJ in tutti i trattati stipulati con l’Italia, compreso il trattato di Osimo. Fatto che suscitò forte stupore.
Anche i cinque parlamentari italiani dell’assemblea slovena, tramite una nota fatta pervenire al Presidente del consiglio Andreotti nell’ottobre 1991, diffidarono da azioni volte a mettere in discussione il confine. Riprova dello stato di sottomissione a cui sono stati addomesticati molti rappresentanti delle comunità italiane, dai tempi del regime titino fino ai giorni nostri.
La questione della tutela dei diritti degli italiani di Croazia venne formalmente disciplinata dal trattato concernente i diritti delle minoranze del 5 novembre 1996 (trattato Dini-Granić), il quale impegna la Croazia ad «accordare alla minoranza italiana l’uniformità di trattamento nel proprio ordinamento giuridico al più alto livello acquisito; questa unitarietà può essere acquisita attraverso l’estensione graduale del trattamento accordato alla minoranza italiana nella ex Zona B sul territorio della Repubblica di Croazia tradizionalmente abitato dalla minoranza italiana e dai suoi membri». In concreto, tale trattamento riguarda, tra gli altri, l’obbligo a dare piena applicazione alla legge sull’istruzione nella lingua delle minoranze e ad estendere nei comuni bilingui l’uso dell’italiano anche nei tribunali e nelle altre istituzioni pubbliche. Tale trattato non è stato rispettato dalla Croazia. Né risulta, sulla base delle informazioni disponibili, che il Ministro degli esteri Di Maio nelle sue recenti visite al ministro croato Grlić Radman o il Presidente Mattarella nel suo incontro di Roma con l’omologo croato Milanović abbiano sollevato la questione del rispetto dell’accordo Dini-Granić da parte della Croazia.
La Repubblica italiana e la Repubblica di Slovenia, invece, hanno intrapreso un faticoso cammino di riconciliazione fondata su una indagine congiunta e il più possibile oggettiva dei fatti storici tesa alla scrittura di una storia condivisa affinché gli errori del passato non abbiano a ripetersi. Il Primo ministro sloveno Janša, in una dichiarazione che gli fa onore, ha riconosciuto che le foibe teatro di violenze in Slovenia sono 581 e di voler dare degna sepoltura alle vittime infoibate.
Tuttavia, riconciliazione non fa rima con concessioni ingiuste e gratuite, come la donazione dell’Hotel Balkan di Trieste da parte di Mattarella al Presidente sloveno Borut Pahor. Il “regalo” di Mattarella è ingiusto perché dichiara carnefice chi carnefice non fu, e cioè quei triestini “colpevoli” di aver manifestato contro l’uccisione di quattro cittadini durante manifestazioni anti-italiane avvenute a Spalato e a Trieste tra l’11 e il 13 luglio 1920 e che furono bersaglio di colpi di arma da fuoco da parte degli sloveni asserragliati all’Hotel Balkan, i quali nel dare fuoco agli elenchi dei soci del Narodni dom (Casa del popolo) e altri documenti compromettenti finirono con l’incendiare l’edificio. Ed è gratuito perché non prevede contropartite: gli sloveni non cessano infatti di reclamare un seggio nel Parlamento italiano.
Le foibe in territorio croato, invece, non sono state ancora inventariate completamente, sebbene si stimi che siano 600-700. Lo Stato croato si trova in una fase di stallo, tra il Presidente ex comunista Zoran Milanović, che non vuole fare luce sulla tragedia della pulizia etnica, ed il primo ministro Andrej Plenković, apparentemente favorevole ad una pacificazione fondata sulla verità ma che si muove lentamente.
Quello che chiediamo non è la rivendicazione territoriale di provincie perdute e dimenticate dai governi italiani. Ma solo di dotarci di una politica estera degna di questo nome, che si faccia promotrice dell’interesse nazionale così come fanno tutti gli Stati che si definiscono tali, compresi quelli dell’Unione europea. La tutela dei diritti linguistici e politici delle minoranze italiane, in particolare di quelle che abitano nel nostro “estero vicino”, dovrebbe essere una priorità della politica estera italiana. Così come la rimozione delle ingiustizie. A cominciare dalla revoca del titolo di Cavaliere di Gran Croce a Tito e agli altri infoibatori. La legge lo consente, ma solo se la persona decorata è ancora in vita. E siccome gli stragisti decorati sono defunti, si sono portati le decorazioni belle e appuntate al petto fin sotto terra. La revoca della decorazione sarebbe tuttora possibile: basterebbe che il Parlamento approvasse una proposta di legge di due righe chiusa nel cassetto che recita: «In ogni caso incorre nella perdita della onorificenza l’insignito, anche se defunto, qualora si sia macchiato di crimini crudeli e contro l’umanità». Il Parlamento non ha ancora trovato il tempo, o i numeri, per lavare questa vergogna.
Rimane irrisolto anche il problema del recupero di più di 100 immobili acquistati dall’Unione Italiana (l’associazione privata che dovrebbe tutelare gli interessi degli italiani rimasti) con i fondi dello Stato italiano ma che l’Unione stessa ancora non ha girato ai legittimi proprietari o ai loro eredi. Perché tale cessione tarda ancora? Forse perché l’Unione trae beneficio dalla manutenzione degli immobili?
La diplomazia italiana avrebbe anche altre leve per far valere i nostri interessi. Innanzitutto, la Croazia, dai tempi della dissoluzione della Iugoslavia, ha intrapreso azioni volte al riconoscimento della lingua croata come lingua originale, autonoma e distinta dal “vecchio” serbo-croato e all’istituzione di corsi di lingua croata nelle università europee, comprese quelle italiane. In secondo luogo, la Croazia, frontiera balcanica della UE, è oggetto di aspre critiche da parte di alcuni Stati membri a causa del mancato rispetto dei diritti dei migranti. Su questa materia l’Italia potrebbe fornire una preziosa collaborazione. Siamo pronti a far valere i nostri interessi?
Tal Gal