Mentre la guerra in Ucraina continua a infuriare, il mondo è diviso in due blocchi: democrazie filo-ucraine contro autocrazie filo-russe. Frapposta tra esse, la Turchia, che sta tentando di svolgere il ruolo di “onesto mediatore” per giungere ad un accordo di pace tra Kiev e Mosca. Una regione la cui pace e stabilità è seriamente minacciata dall’invasione russa dell’Ucraina sono i Balcani occidentali. Oggi come ieri si trova intrappolata tra oriente e occidente: la Russia continua a essere lo sponsor storico dei serbi così come l’Austria e la Germania lo sono state dei croati e la Turchia dei bosgnacchi (solitamente identificati con i musulmani bosniaci) e gli albanesi. In quanto fianco debole dell’Europa, le nazioni dei Balcani occidentali sono particolarmente vulnerabili agli effetti della guerra, che ha innescato reazioni diverse nella regione.
Il nostro nemico comune ci rende amici
A prima vista, l’Albania sembra unita nella sua condanna dell’aggressione russa e nella sua posizione filo-occidentale. In qualità di membro a rotazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’Albania ha votato una bozza di risoluzione di cui è coautrice con gli Stati Uniti, che avrebbe condannato l’aggressione della Russia contro l’Ucraina. Il progetto di risoluzione non è stato adottato a causa del veto russo, mentre la Cina si è astenuta. Il membro del parlamento albanese Agron Shehaj spiega la posizione del suo Paese: “Mentre la classe politica e i cittadini albanesi hanno sostenuto l’ingresso di Tirana nella NATO, gli albanesi ora possono percepire concretamente la minaccia rappresentata dall’attuale crisi e i vantaggi dell’appartenenza all’alleanza atlantica. Allo stesso tempo, gli albanesi sono sempre più frustrati dal fatto che l’UE non abbia ancora dato il via libera all’adesione dell’Albania e della Macedonia del Nord al blocco. Inoltre, il veto della Bulgaria all’ingresso di Skopje – e quindi anche dell’Albania a causa del collegamento tra i processi di adesione all’UE di Tirana e Skopje – sembra una scusa da parte di altri membri dell’UE (soprattutto la Francia) per congelare il processo di allargamento”.
Al contrario, continua Shehaj, “l’Albania ha un accordo di cooperazione militare con la Turchia nei confronti del quale gli albanesi non provano né ostilità né favore. Preferiremmo avere una cooperazione più profonda in tutti i settori, compreso quello militare, con l’Europa occidentale, in particolare con l’Italia. In assenza di qualsiasi impegno tangibile da parte dell’UE e in particolare dell’Europa occidentale, l’Albania accoglie con favore l’impegno degli Stati Uniti nel nostro Paese e nella regione”.
I croati gridano “gloria all’Ucraina”
La posizione della Croazia è simile a quella dell’Albania. Negli anni ’90, entrambi i paesi hanno combattuto guerre per l’autodeterminazione nazionale contro lo stesso nemico. Ma mentre quella di Zagabria è stata una guerra per la secessione dalla Jugoslavia dominata dalla Serbia, quella di Tirana ha assunto la forma di sostegno alla secessione del Kosovo, a maggioranza albanese, dalla Serbia. Nel 2009, Albania e Croazia hanno aderito alla NATO e sono stati i primi paesi dei Balcani occidentali a raggiungere questo obiettivo. Nella guerra russo-ucraina, entrambi sono fermamente schierati con Kiev. Tuttavia, alcune sfumature segnano differenze tra la posizione di Tirana e Zagabria nei confronti della Russia.
Mentre i principali partiti albanesi hanno mostrato unità nel loro sostegno a qualsiasi azione guidata dagli Stati Uniti o dalla NATO contro la Russia, le dichiarazioni pubbliche del presidente in carica della Croazia ed ex presidente del Partito socialdemocratico (SDP), Zoran Milanović, hanno creato imbarazzo a Zagabria, il che ha portato a un battibecco politico con il primo ministro Andrej Plenković, leader del partito di centrodestra dell’Unione democratica croata (HDZ). Molto prima dell’aggressione russa in Ucraina, Milanović era stato esplicito nel mettere in dubbio il possibile allargamento della NATO all’Ucraina e nel rispondere alle richieste di sicurezza della Russia. Commentando di recente le dichiarazioni del presidente, Plenković ha spiegato che Milanović “deve aver avuto un blackout” quando ha fatto tali dichiarazioni.
Haris Boko, ex capo del disciolto Partito social-liberale croato (HSL) e ora presidente della società di consulenza EUbusiness con sede a Zagabria, alla domanda se lo scontro tra le due figure politiche più importanti del Paese possa essere letto come una mancanza di coerenza della politica croata nella crisi ucraina, ha dichiarato: “lo scontro è solo il risultato della loro rivalità politica e un tentativo di essere più attraenti verso il loro elettorato. Tuttavia, in caso di un intervento diretto della NATO in Ucraina, i croati non esiterebbero a sostenere la decisione del governo di inviare truppe a sostegno di Kiev”.
In realtà, il motivo della solidarietà della Croazia all’Ucraina va ricercata nella sua storia recente, che l’ha vista nel mezzo delle guerre balcaniche degli anni ’90, il più grande spargimento di sangue in Europa dalla Seconda guerra mondiale.
Boko spiega: “La bussola per navigare nella crisi ucraina è in Bosnia-Erzegovina”. Quest’ultima, infatti, è stata il teatro di atti di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra perpetrati dalle truppe jugoslave guidate dalla Serbia, a cui solo l’intervento della NATO e i conseguenti accordi di pace di Dayton hanno posto fine. Ma la Bosnia-Erzegovina resta oggi uno Stato estremamente fragile, minacciato dalla possibile secessione della Republika Srpska, una delle sue due entità costituenti e popolato a maggioranza serba. Se la secessione della Crimea, Donetsk e Luhansk dall’Ucraina dovesse essere riconosciuta in un modo o nell’altro dalla comunità internazionale, ciò potrebbe avere un effetto domino che porterebbe alla disgregazione della Bosnia-Erzegovina. Ciò rappresenta una potenziale minaccia per la Croazia e spiega perché i croati provano una forte solidarietà nei confronti dell’Ucraina.
Questa sensazione di minaccia è stata incarnata dalla stessa nazionale di calcio croata già ai campionati del mondo del 2018, quando il difensore croato Domagoj Vida osannò l’Ucraina dopo la sconfitta della Russia ad opera della squadra del Paese balcanico, e per questo dovette subire un richiamo da parte della FIFA.
Anche i bosgnacchi stanno con l’Ucraina
Mahir Hadziahmetović, diplomatico di spicco, ora in pensione, ai tempi dell’ex Jugoslavia e poi della Repubblica di Bosnia-Erzegovina, ha un’opinione molto chiara sulle potenziali ripercussioni che l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe avere sul suo Paese, e in particolare sui bosgnacchi. In primo luogo, dice, “la Bosnia-Erzegovina ricorda vividamente la tragedia dei 1.425 giorni di guerra tra il 1991 e il 1995. Sarajevo ha pagato un tributo particolarmente alto, con 350 granate che in media colpivano quotidianamente la città. Per questo motivo, tutti i bosniaci provano solidarietà nei confronti degli ucraini”. In secondo luogo, l’Atto finale di Helsinki del 1975, firmato anche dallo Stato predecessore della Repubblica di Serbia, la Jugoslavia, e dallo Stato predecessore della Federazione Russa, l’URSS, prevede il rispetto dei confini internazionalmente riconosciuti. Hadziahmetović continua: “Questo principio si applica anche all’Ucraina. Legalizzare l’annessione della Crimea da parte della Russia e la secessione di Donetsk e Luhansk dall’Ucraina aprirebbe un “vaso di Pandora” non solo in Bosnia-Erzegovina con la Republika Srpska, in Montenegro con la sua minoranza serba e nella Macedonia del Nord dove vivono gli albanesi, ma anche in Spagna con la Catalogna, nel Regno Unito con la Scozia e perfino in Francia con la Corsica”.
Tuttavia, Hadziahmetović riconosce che “ammettere l’Ucraina nel programma di Opportunità rafforzata nel quadro dell’Iniziativa per l’interoperabilità dei partner della NATO prima dell’adesione di Kiev all’UE è stato un errore. Il processo avrebbe dovuto avvenire con una sequenza opposta. E la possibilità che la NATO possa intraprendere un intervento militare diretto in Ucraina dovrebbe essere evitata, in quanto potrebbe innescare il ricorso estremo di Putin alle armi nucleari. Allo stesso modo, un possibile ingresso della Bosnia Erzegovina nella NATO sarebbe come mettere un dito negli occhi della Russia”.
Nel frattempo i serbi sostengono la Russia
I visitatori che arrivano a Belgrado non possono non notare i cartelloni pubblicitari che espongono le bandiere di Serbia e Russia intrecciate e con una scritta che recita: zajedno (insieme). Sebbene questo sia il tabellone pubblicitario della compagnia petrolifera nazionale serba NIS, acquisita dalla russa Gazprom nel 2009, esso riflette lo spirito della maggior parte dei serbi nei confronti della Russia. E l’invasione russa dell’Ucraina non ha alterato questo sentimento.
Dalla sua ascesa al timone della Serbia nel 2014, inizialmente come primo ministro e poi come presidente, l’uomo forte del Paese, Aleksandar Vučić, è riuscito a mantenere Belgrado in uno stretto sentiero di neutralità all’interno di un ordine mondiale multipolare. Vučić coltiva buoni rapporti con gli Stati Uniti e i suoi principali alleati occidentali al fine di bilanciare i suoi legami storici con la Russia. Sono passati dieci anni da quando la Serbia ha ottenuto lo status di candidato ufficiale dell’UE ma la sensazione di non essere presi sul serio da Bruxelles sta montando in quella che è stata la repubblica più popolosa della federazione iugoslava.
Molti serbi si sentono frustrati da quello che affermano essere un “doppio standard”. Ritengono che mentre l’Occidente ha applicato il principio del diritto dei popoli all’autodeterminazione per sostenere la secessione del Kosovo dalla Serbia e giustificare i bombardamenti della NATO del 1999, allo stesso tempo esso aderisce al principio dell’integrità territoriale degli stati per condannare l’annessione della Crimea da parte della Russia e disconoscere il disagio dei serbi di Bosnia nei confronti dell’architettura istituzionale della Bosnia-Erzegovina. In altre parole, secondo la maggior parte dei serbi, se il Kosovo ha il diritto di separarsi dalla Serbia, lo stesso diritto dovrebbe essere riconosciuto alla Crimea nei confronti dell’Ucraina e alla Republika Srpska nei confronti della Bosnia-Erzegovina. In alternativa, se l’Ucraina ha il diritto di preservare la propria integrità territoriale, lo stesso diritto dovrebbe essere riconosciuto alla Serbia.
Lo scoppio della guerra in Ucraina è un test importante per la Serbia e il suo leader. Sebbene Belgrado abbia votato a favore della risoluzione che chiede alla Russia di “ritirare immediatamente, completamente e incondizionatamente tutte le sue forze militari dal territorio dell’Ucraina entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non ha rispettato le sanzioni imposte dall’Occidente contro Mosca. Nel frattempo, a Belgrado si sono svolte manifestazioni filo-russe seguite da meno partecipate manifestazioni filo-ucraine. La facile vittoria di Vučić alle elezioni tenutesi all’inizio di aprile può essere letta come un’approvazione della sua politica estera da parte degli elettori.
Abbiamo chiesto a Vladimir Marinković, membro del Partito progressista serbo (SNS) al potere, di approfondire la posizione della Serbia nella crisi ucraina: “siamo solidali con i lutti e le sofferenze degli ucraini, ma allo stesso tempo crediamo che gli accordi di Minsk II – che prevedono una riforma della costituzione ucraina in base alla quale un più elevato grado di decentramento verrebbe concesso alle regioni di Donetsk e Luhansk – dovrebbero essere attuati”. Riguardo alle possibili implicazioni della guerra ucraina nella regione balcanica, Marinković ricorda che “la Russia sostiene l’integrità territoriale della Serbia (in Kosovo)”. Allo stesso tempo, “la Serbia si è impegnata all’integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina. Non dobbiamo dimenticare che Belgrado è uno dei garanti degli Accordi di pace di Dayton e che la Serbia persegue la pace e la stabilità della regione. Ne è una riprova l’iniziativa Balcani aperti, volta a creare una zona di libero scambio tra Serbia, Macedonia del Nord e Albania. I rapporti Serbia-Albania, in particolare, non sono mai stati così buoni come lo sono oggi. Siamo orgogliosi di aver donato 29.000 tonnellate di grano all’Albania, dopo che le forniture dall’Ucraina a Tirana sono state tagliate”. Tuttavia, Marinković conclude che “dovrebbero essere introdotte misure per proteggere le minoranze serbe in Montenegro e altrove. Il sistema delle quote adottato in Macedonia del Nord a vantaggio degli albanesi potrebbe essere una buona soluzione”.
Mentre non è raro imbattersi in rifugiati ucraini per le strade di Zagabria o russi che pranzano nei ristoranti di Belgrado, le tensioni nei Balcani occidentali aumentano e rischiano di destabilizzare ulteriormente l’Europa. Il mondo farebbe bene a ricordare la citazione dell’ex presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy: “Non c’è niente di più certo e immutabile dell’incertezza e del cambiamento”.
Gaetano Massara