Il 3 maggio scorso si è svolta la cerimonia di inizio dei lavori per il rigassificatore di Alexandroupolis in Grecia. Alla cerimonia erano presenti, oltre al Primo Ministro ellenico, Kiriakos Mitsotakis, il Primo Ministro della Bulgaria, Kiril Petkov, il Presidente della Serbia, Aleksandar Vucic, e il Primo Ministro della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski. Con un’entrata in funzione prevista per la fine del 2023, il terminale di Alexandoupolis sarà il rubinetto di ingresso in Europa di 5,5 miliardi di metri cubi (BCM) all’anno di gas naturale proveniente da Stati Uniti, Qatar ed Egitto. La presenza del Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e dell’ambasciatore americano in Grecia è una prova della sua rilevanza geoeconomica.
La società greca Gastrade, promotrice e proprietaria dell’impianto di Alexandroupolis, ha ottenuto l’autorizzazione per un secondo terminale di rigassificazione della stessa capacità al largo delle coste della Tracia. Questi due progetti, insieme al terminal di Krk-Veglia in Croazia, inaugurato l’anno scorso con quasi 3 BCM di capacità, sono buone notizie. Non tanto perché rappresentano un successo per la mia umile diplomazia economica quando, alla guida di General Electric in Sud-Est Europa (SEE), mi sono adoperato affinché i Paesi della regione collaborassero su progetti strategici. Ma soprattutto perché contribuiscono a rompere il monopolio russo sulle forniture di gas ai Paesi della regione, un mercato di 30 BCM all’anno.
La strategia energetica di un Paese è determinata da quattro fattori: la disponibilità di risorse, i costi associati al loro sfruttamento rispetto ai costi di risorse alternative, gli effetti del loro sfruttamento sull’ambiente e le implicazioni geopolitiche. Le riserve europee di idrocarburi non sarebbero trascurabili, anche se insufficienti a soddisfare i nostri consumi. Ma i costi diretti di esplorazione e sviluppo dei giacimenti nonché il loro impatto sull’ambiente hanno indotto i paesi europei a preferire fonti energetiche alternative ai combustibili fossili di casa. Questo è quanto accaduto fino al 24 febbraio, giorno dell’aggressione russa all’Ucraina. E spiega perché la produzione europea di gas naturale soddisfi a malapena il 10% del fabbisogno del continente.
Spinti dalla weaponization russa, cioè l’uso delle forniture di gas a fini ricattatori, alcuni paesi europei hanno derogato ai loro precedenti divieti all’espansione dei giacimenti di idrocarburi nazionali o allo sfruttamento di nuovi. È il caso di Italia, Germania, Romania e probabilmente Slovacchia.
Ma anche ipotizzando un aumento della produzione interna di gas, nel medio e lungo termine l’Europa continuerà a dipendere dalle importazioni.
Circa il 40% del gas consumato in Europa viene importato dalla Russia, percentuale che sale fino al 100% nel caso dei Paesi baltici. Diversificare rispetto agli idrocarburi russi non è solo una scelta prudente, ma dopo l’adozione del Piano REPower EU è anche un impegno. Secondo il Piano, l’UE risponderà alla «doppia urgenza di porre fine alla sua dipendenza dai combustibili fossili russi e di affrontare la crisi climatica attraverso il risparmio energetico, la diversificazione degli approvvigionamenti e un’accelerazione nell’introduzione delle energie rinnovabili».
Ma non tutte le diversificazioni sono uguali. Nel perseguire la diversificazione energetica, l’Europa dovrebbe anche prendere in considerazione i suoi costi economici, sociali e geopolitici.
Il GNL conviene?
Il gas russo viene trasportato in Europa attraverso quattro gasdotti: North Stream, gasdotto sottomarino che collega direttamente la Russia con la Germania, Yamal, che arriva in Polonia attraverso la Bielorussia, Brotherhood, che arriva in Slovacchia attraverso l’Ucraina, e Turkstream, che attraversa il Mar Nero prima di approdare in Turchia. Ad eccezione di Turkstream, gli investimenti per questi gasdotti sono in gran parte ammortizzati. Il prezzo del gas che forniscono è generalmente competitivo rispetto al GNL.
Ma qual è il livello di prezzo del gas al di sopra del quale il GNL diventa competitivo rispetto al gas trasportato via tubo? La risposta dipende da diversi fattori quali il livello comparativo dei prezzi del gas nelle diverse borse in cui viene scambiato, i costi associati alla trasformazione e al trasporto del GNL, la distanza dal punto di produzione del GNL al punto di consegna e le possibili revisioni di prezzo nei contratti di compravendita. Inoltre, le importazioni di GNL tendono a variare di anno in anno in funzione di fattori indipendenti dal prezzo come le temperature invernali e la disponibilità di forniture da gasdotto.
Il GNL è strutturalmente più costoso del gas naturale in condizioni fisiche standard. Il ciclo del GNL prevede la liquefazione del gas, che ha un costo compreso tra €5 e €10 per MWh, più il trasporto al mercato di destinazione, che ha un costo di compreso tra €1,7 e €4 per MWh, e il costo di rigassificazione del GNL, tra €1 e €1,5 al MWh.
I costi per la fornitura tramite tubo aumentano con la distanza poiché è necessario aggiungere nuove stazioni di compressione o potenziare quelle esistenti, e potrebbero essere necessarie costose operazioni per posare i tubi su fondali profondi o attraverso montagne. In parole povere, il GNL diventa competitivo rispetto ai gasdotti per distanze superiori a 2.500-3.000 km.
Il gas naturale trasportato mediante tubo è solitamente commercializzato con contratti a lungo termine a prezzi fissi mentre i contratti di compravendita del GNL, nonostante abbiano anch’essi generalmente una durata lunga, contengono sempre più spesso “liberatorie” che consentono di dirottare le navi verso mercati che pagano il gas a prezzi superiori o clausole che permettono revisioni dei prezzi. Questo è particolarmente vero nell’attuale contesto di “mercato del venditore”. Ed è ciò che è successo a partire dalla fine dell’anno scorso, quando l’aumento del prezzo del gas europeo ha reso il GNL americano così competitivo che le navi metaniere che lo stavano trasportando in Asia hanno virato verso l’Europa.
Il 24 giugno, i future sul TTF (il benchmark olandese per il mercato europeo del gas naturale) sono stati scambiati a €133 per MWh, con un aumento del 200% rispetto all’anno precedente. Questo è stato il prezzo più alto dal 9 marzo, in quanto il mercato ha incorporato il rischio di un taglio delle forniture alla Germania, il rischio che ulteriori tagli all’offerta da parte di Gazprom abbiano un impatto su dodici paesi dell’UE e il rischio che il blocco impedisca il riempimento degli stoccaggi prima della prossima stagione invernale.
Invece, l’Henry Hub (il benchmark americano di prezzo) ha scambiato vicino a €21/MWh, il prezzo più basso dal 7 aprile. Cheniere, uno dei maggiori esportatori di gas statunitensi, applica una formula a partire dal prezzo Henry Hub, a cui aggiunge un margine – solitamente il 15% – e una commissione di liquefazione. Se al prezzo Henry Hub odierno aggiungiamo un tale margine e una commissione di liquefazione di circa 10 €/MWh, più spese di trasporto per 4 €/MWh e una commissione di rigassificazione di 1,5 €/MWh, arriviamo ad un prezzo del GNL americano rigassificato intorno a € 40/MWh, che attualmente lo rende circa il 70% inferiore al prezzo del gas europeo.
Gli analisti prevedono che tra 12 mesi il TTF veleggerà sui 179 €/MWh, mentre l’Henry Hub sarà sui 29 €/MWh. Se a quest’ultimo aggiungiamo un margine di transazione e commissioni di liquefazione, trasporto e rigassificazione, arriviamo a circa €48-50/MWh. Prezzo che renderebbe il GNL americano più conveniente del gas europeo di circa il 72%, con un margine di sicurezza di €125-130/MWh per assorbire eventuali aumenti di prezzo del gas americano.
Ciò accade perché gli operatori di mercato guardano ai prezzi, non alla politica. E spiega perché le importazioni di GNL rappresentano solo il 20% circa del gas naturale importato dall’UE-27 più il Regno Unito. E spiega anche perché fino all’anno scorso gli importatori europei preferivano il gas russo al “gas della libertà” di Donald Trump.
Nel 2021, il principale fornitore di GNL all’UE-27 più il Regno Unito sono stati gli Stati Uniti con il 26% delle importazioni complessive di GNL, seguiti dal Qatar con il 24% e dalla Russia con il 20%.
Per soddisfare la domanda, negli ultimi anni i Paesi europei hanno aumentato le importazioni, in particolare dalla Russia. Tuttavia, nel 2021 le importazioni di gas russo sono diminuite mentre l’aumento delle importazioni dalla Norvegia non è stato sufficiente a compensare i minori afflussi dalla Russia.
A differenza dei gasdotti, il GNL consente di evitare i costi relativi ai diritti di transito attraverso giurisdizioni diverse ed elimina alla radice il rischio di ricatti come la decisione di Putin di tagliare le forniture a Polonia, Bulgaria, Finlandia, Germania e altri Paesi.
Secondo la Commissione Europea, per ridurre la dipendenza dal gas russo quest’anno l’UE dovrebbe aumentare le importazioni di GNL di 50 BCM, un aumento del 55% rispetto al 2021. Ma con un aumento della produzione mondiale di GNL di soli 60-70 MMCM, la maggior parte dei quali negli Stati Uniti, secondo l’International Group of LNG Importers, l’Europa potrà assicurarsene al massimo la metà. Quindi, il divario tra domanda e offerta manterrà inevitabilmente i prezzi alti.
Inoltre, le attuali strozzature infrastrutturali giocano contro l’Europa: con solo circa 50 FSRU (Floating, Storage, Regasification Units: navi rigassificatrici ormeggiate ai terminali di importazione) in tutto il mondo, circa 600 navi cisterna di GNL e il tempo necessario per costruire nuove FSRU o convertire navi gasiere esistenti, è logico attendersi una dinamica rialzista dei prezzi per il prossimo inverno.
I costi della transizione energetica
Secondo BloombergNEF, il passaggio da un’economia basata sui combustibili fossili a una basata sull’elettricità comporterà l’installazione di nuove centrali elettriche a energia rinnovabile per 17.800 GW e nella posa di 48.000 km di nuove linee elettriche in tutto il mondo da qui al 2050. L’Agenzia internazionale per l’energia stima che per rispettare l’Accordo di Parigi e mantenere la temperatura mondiale entro la soglia dei 2°C occorrono investimenti fino a $10.000 miliardi entro il 2030.
La costruzione su vasta scala di turbine eoliche e impianti fotovoltaici, l’ampliamento e il potenziamento delle linee di trasmissione, nonché il massiccio dispiegamento di batterie e veicoli elettrici stanno innescando un aumento della domanda di acciaio, alluminio, rame, grafite, litio, nichel, cobalto, terre rare e altri minerali industriali e materiali necessari per produrre tecnologie a basse emissioni di carbonio.
Secondo la Banca Mondiale, «un futuro a basse emissioni di carbonio avrà un elevato contenuto di risorse minerarie perché le tecnologie energetiche “verdi” necessitano di più minerali rispetto alle tecnologie basate sui combustibili fossili». Pertanto, la domanda di tali minerali aumenterà.
Il rapporto dell’UE Resilienza alle materie prime critiche informa che «per la maggior parte dei metalli, l’UE dipende dalle importazioni per una percentuale compresa tra il 75% e il 100%» e in particolare «per le batterie dei veicoli elettrici e l’accumulo di energia, entro il 2050 l’UE avrebbe bisogno di una fornitura di litio fino a 60 volte maggiore di quella attuale, mentre le forniture di cobalto e terre rare dovrebbero essere rispettivamente fino a 15 volte e 10 volte maggiori».
Tuttavia, è interessante notare che secondo la Banca mondiale «nonostante il maggior contenuto di risorse minerarie nelle tecnologie a fonte rinnovabile, le emissioni generate dalle attività di produzione e funzionamento delle tecnologie a energia rinnovabile e di stoccaggio rappresentano appena il 6% di quelle derivanti dalla generazione da carbone e gas».
Analogamente agli idrocarburi, anche i prezzi dei metalli e delle terre rare sono aumentati vertiginosamente per effetto della crisi pandemica e della transizione energetica, con ripercussioni sull’inflazione. Un interessante libro dell’esperto di materie prime, Gianclaudio Torlizzi, Materia rara, fa luce sull’attuale turbolenza nei mercati delle commodities. Secondo Torlizzi, «per alcune tipologie di commodities come metalli e acciai, le probabilità che sia iniziato un superciclo, cioè un periodo protratto di crescita della domanda, così intenso da rendere i produttori incapaci di soddisfare la richiesta – sono decisamente alte, con tutte le conseguenze che il fenomeno comporta sull’inflazione, sulla marginalità delle imprese di trasformazione e sul potere d’acquisto dei consumatori». Se ciò sia definibile come reflazione, cioè un rimbalzo dei prezzi innescato dalla ripresa della domanda, o inflazione strutturale a più lungo termine sembrerebbe quindi trovare una risposta più credibile in quest’ultima. Ma, prosegue Torlizzi, «la questione di fondo è quale sarà la soglia di tolleranza delle banche centrali. È lecito attendersi che sarà molto alta. Una volta che la prima ondata di inflazione sarà terminata, i prezzi si stabilizzeranno su livelli ben più alti di quelli di partenza». Di conseguenza, «quanto il rialzo dei prezzi delle materie prime andrà a incidere sul potere d’acquisto delle fasce meno abbienti, sulla marginalità delle imprese e sulla tenuta sociale dei Paesi in via di sviluppo particolarmente vulnerabili alle variazioni dei prezzi dei generi alimentari rappresenterà probabilmente l’incognita maggiore».
Inoltre, la transizione dal motore endotermico a quello elettrico comporterà costi sociali non trascurabili. Secondo PwC, «un approccio alla mobilità basato solo sui veicoli elettrici – come quello adottato dalla Commissione Europea e dal Parlamento Europeo, di mettere al bando i veicoli a motore endotermico entro il 2035 – comporterebbe la perdita di 501.000 posti di lavoro nell’UE. Poiché si creerebbero 226.000 nuovi posti di lavoro nelle attività legate alla produzione di motori e accumulatori elettrici, la perdita netta di posti di lavoro sarebbe di 275.000 unità entro il 2040». Al contrario, prosegue il rapporto PwC, «un approccio a tecnologia mista che consenta l’utilizzo di combustibili sintetici o altre soluzioni come l’idrogeno potrebbe ridurre le emissioni di CO2 del 50% entro il 2030 e salvare i posti di lavoro attuali».
Economia contro geopolitica
La differenza tra l’era precedente e quella successiva al 24 febbraio è che prima dell’attacco della Russia all’Ucraina, l’Occidente sottovalutava i rischi geopolitici connessi alla sua dipendenza dalle autocrazie per la fornitura di materiali strategici. In altre parole, importare gas dalla Russia è stata la scelta più economica.
La guerra Russia-Ucraina ha reso l’Occidente più consapevole dei rischi geopolitici, compreso il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale da parte dei fornitori di materie prime. I recenti rincari dei prezzi delle risorse naturali scontano anche un fattore di rischio geopolitico. Nel medio termine questo continuerà ad essere incorporato nei prezzi delle risorse.
Dei Paesi verso i quali l’attività della diplomazia energetica europea si è intensificata negli ultimi mesi, la maggioranza è governata da regimi molto distanti da noi in quanto a valori di riferimento o che si trovano in contesti geopolitici instabili.
Il Qatar è il secondo esportatore mondiale di GNL, ma è anche un Paese in cui vige la Sharia e dove le donne non godono degli stessi diritti degli uomini.
L’Algeria fornisce gas naturale all’Europa attraverso tre gasdotti sottomarini: il Transmed, il Medgas e il Maghreb-Europe. Vende anche GNL. L’Algeria ha interrotto le relazioni diplomatiche con il Marocco nell’agosto dello scorso anno a causa di una lunga disputa sullo status del Sahara occidentale. Con un bilancio per la difesa di $9,1 miliardi, che rappresenta il 5,6% del suo PIL, l’Algeria è tra i primi dieci paesi al mondo per spesa militare in percentuale del PIL e ha il secondo esercito più grande dell’Africa. L’Algeria era un membro di spicco del Movimento dei Non Allineati e vicina all’Unione Sovietica. Oggi l’Algeria acquista armi sia dalla Russia che dalla Turchia e intrattiene buoni rapporti con Iran e Cina. Ha inoltre fissato unilateralmente la propria zona economica esclusiva fino alle coste della Sardegna occidentale, senza consultarsi con l’Italia.
L’Egitto detiene le maggiori riserve di gas naturale del Mediterraneo. Zohr, il giacimento offshore scoperto nel 2015, ha riserve stimate in 850 BCM. Questo gas sarà probabilmente utilizzato per soddisfare il crescente fabbisogno interno, ma il resto sarà esportato attraverso i due impianti di liquefazione esistenti o tramite il gasdotto EastMed da costruire. La dipendenza energetica dell’Europa persuaderà probabilmente i nostri governanti a scendere a compromessi sui crimini perpetrati dal regime di Al Sisi nei confronti di Giulio Regeni e Patrick Zaki.
La Repubblica del Congo è destinata a diventare un esportatore di GNL all’Italia e all’Europa, nonostante sia una dittatura di fatto guidata da 40 anni dallo stesso leader.
Parlando di metalli industriali e terre rare, il panorama non è più incoraggiante. Gli elettrostati comprendono non solo l’Australia (primo produttore mondiale di litio), gli Stati Uniti (primo produttore di semiconduttori) e il Cile (primo produttore di rame), ma anche la Cina (primo produttore di terre rare e leader nella produzione di batterie elettriche ed elettrolizzatori per la produzione di idrogeno verde), la Repubblica Democratica del Congo (cobalto) e l’Indonesia (nichel).
I Paesi africani sono generalmente ricchi di materie prime. Sono stati penetrati commercialmente dalla Cina e, in misura minore, dalla Russia, che in questo modo hanno potuto reperire i materiali di cui non dispongono. In America Latina, altro continente ricco di risorse, l’ascesa al potere di governi populisti in Messico, Perù e Bolivia potrebbe portare all’adozione di atti legislativi protezionistici che disincentiverebbero gli investimenti privati nel settore minerario.
The Economist ha condotto una simulazione sulla spesa per l’acquisto di un paniere composto da dieci risorse naturali, tra cui petrolio, carbone e metalli utilizzati nella produzione di energia e nell’elettrificazione. I risultati mostrano che «man mano che il mondo si decarbonizza, la spesa per questo paniere scenderà dal 5,8% del PIL al 3,4% entro il 2040, e che oltre la metà della spesa andrà a finanziare regimi autocratici. I primi dieci Paesi avranno una quota di mercato superiore al 75% in tutti i minerali, il che significa che la produzione sarà pericolosamente concentrata».
Le conclusioni vengono tratte da Torlizzi, il quale ammonisce che «il rischio di adottare ambiziosi obiettivi climatici prima di mettere in sicurezza la filiera rappresenta una questione di rilevanza strategica, oltre che arrecare danni economici. In assenza di una filiera stabile e affidabile alternativa a quella cinese, l’Europa potrebbe cadere in una condizione di dipendenza più pericolosa di quella dalla Russia».
D’altra parte, il think tank statunitense Center for Strategic and International Studies ritiene che «lo sganciamento dalla Cina è oggi impossibile e sarà improbabile in futuro, oltre ad essere costoso».
La “taglia unica” non va bene a tutti
Anche la transizione alla mobilità elettrica vedrà vincitori e vinti. Per i Paesi in cui l’energia nucleare rappresenta una quota importante del mix energetico, i veicoli elettrici sono un mezzo conveniente per immagazzinare energia durante le ore di basso consumo. La produzione delle centrali nucleari, infatti, non può essere modificata rapidamente. Ciò significa che l’elettricità generata di notte o quando la domanda è bassa dovrebbe essere temporaneamente immagazzinata in reti di trasmissione potenziate, costosi sistemi di stoccaggio o addirittura dissipata. Invece, i veicoli elettrici e le loro batterie possono rappresentare una soluzione a diversi problemi: riduzione dei picchi, risparmio energetico, abbattimento delle emissioni e stabilizzazione della rete. Questo spiega perché Stati nucleari come Francia, Svezia e Finlandia sono forti sostenitori della mobilità elettrica.
In questo senso, per i Paesi senza centrali nucleari i benefici del passaggio alla mobilità elettrica sono meno evidenti e meno veloci.
Pertanto, la saggezza consiglierebbe di attuare un policy mix composto da friend-shoring, cioè alleanze con Stati amici per la fornitura di risorse strategiche o la produzione di semilavorati, re-shoring, ovvero rimpatriare le produzioni, e il perseguimento di un grado massimo di diversificazione geografica e tecnologica.
Gaetano Massara