Il 25 luglio scorso in Tunisia si è tenuto il referendum costituzionale voluto dal presidente della Repubblica, Kais Saied. Nonostante l’affluenza sia stata solo del 27%, la riforma che reintroduce un presidenzialismo forte è stata approvata con il 92% dei voti. Secondo gli osservatori, quella che si sta aprendo in Tunisia è una stagione di “iper-presidenzialismo”. Oltre ad essere il capo dello Stato, dell’esecutivo e delle forze armate, il presidente avrà poteri di iniziativa legislativa prioritaria, potrà sciogliere il parlamento, esercitare controlli sulla magistratura e non potrà essere messo in stato di accusa. I suoi pesi non saranno bilanciati da adeguati contrappesi.
Il Paese dei gelsomini è quello da cui nel 2011 era partita la “primavera araba” propagatasi in tutto il Medio-oriente. Sull’onda delle rivolte popolari che chiedevano una svolta democratica, il presidente Abidin Bel Ali aveva lasciato il Paese dopo 23 anni al potere. Le elezioni dell’estate per l’Assemblea costituente – le prime elezioni libere della storia tunisina – avevano visto la netta vittoria del partito islamista Ennahda, messo al bando dal vecchio regime e portatore di un’agenda moralizzatrice. I timori di una deriva autoritaria avevano portato nel 2014 prima all’adozione di una Costituzione che modificava il sistema presidenziale puro in semi-presidenziale, poi alla vittoria elettorale del partito di ispirazione laica Nida Tunus e del suo leader, Beji Caid Essebsi, con l’appoggio di Ennahda.
Morto Essebsi nel 2019, le terze elezioni in meno di 10 anni vedono l’ascesa alla presidenza, con una vittoria straripante, dell’indipendente Saied, munito di una narrazione populista e anti-partitica ancora più dei suoi predecessori.
Ma il sistema semi-presidenziale porta ad una difficile co-abitazione tra Saied ed Ennahda. La contrapposizione si inasprisce in seguito ai gravi danni sociali ed economici inflitti dalla pandemia; nell’estate del 2021 il Paese dei gelsomini è, infatti, tra i Paesi arabi e africani, quello con il più alto numero di vittime e di infetti. La crisi sanitaria si somma alla pregressa crisi economica aggravata dalla guerra civile nella vicina Libia e dal conseguente ammanco di rimesse dei tunisini che lavorano nel Paese confinante. Inoltre, Tunisi soffre di un pericoloso squilibrio economico-finanziario ed è a rischio fallimento; per questo beneficia di due programmi di assistenza del Fondo monetario internazionale. Ancora più importante è forse la polarizzazione del Paese tra la regione costiera, relativamente ricca, moderna e filo-occidentale e l’entroterra rurale, islamico e conservatore.
E’ in questo quadro che si innesta l’azione di forze esterne al Paese. La Tunisia è uno dei tanti teatri mediterranei dove va di scena lo scontro tra Turchia, Qatar, Francia e monarchie del Golfo Persico.
Ennahda è sostenuto dalla Fratellanza musulmana e dalla Turchia di Erdogan, a cui il controllo della Tunisia consentirebbe di proteggere il fianco occidentale della Tripolitania “turca” e il fianco Sud dello Stretto di Sicilia. Il partito riscuote consensi soprattutto nelle regioni rurali e conservatrici.
Il Presidente Saied gode dell’appoggio di Francia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto, accomunati dall’obiettivo di ostacolare l’espansione turca. Il leader gode del sostegno delle classi moderniste e riesce ad attrarre il proletariato urbano deluso dagli islamisti.
Col pretesto delle manifestazioni contro il governo ed Ennahda per la loro incapacità di fronteggiare la crisi sanitaria ed economica e con l’appoggio di Parigi, Abu Dhabi e Riad, il 25 luglio 2021 Saied licenzia il governo e sospende il parlamento. Esattamente un anno dopo il colpo di Stato, questo viene di fatto approvato dal voto favorevole alla riforma costituzionale voluta da Saied.
L’epilogo del “laboratorio tunisino”, seguito con speranza da larga parte dell’Occidente, ci lancia dei segnali preziosi.
Primo, la Tunisia. Posti di fronte alla scelta tra un sistema democratico di tipo occidentale e l’efficacia dell’azione di governo, i tunisini hanno scelto la seconda opzione. Anche perché si sono affidati a un sistema di governo che già conoscono per averlo sperimentato nei decenni seguiti all’indipendenza. Seppur un monarca assoluto, Saied gode di un indice di gradimento molto alto nei sondaggi.
Secondo, il Medio-oriente allargato. In gran parte della regione, le speranze di democratizzazione sono state deluse. La lunga ondata di riflusso ha ormai restaurato regimi autoritari pressoché dappertutto. Là dove ciò non è ancora successo, è perché vi sono guerre civili, dichiarate o latenti, come in Libia, Iraq, Sudan o negli Stati del Sahel.
Terzo, l’Italia. Non pervenuta. Risale al dicembre scorso l’ultimo incontro tra rappresentanti del governo italiano, il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio insieme al Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, e il Presidente Saied. In una fase cruciale per il futuro del Paese Nord-africano e dei rapporti tra Roma e Tunisi, in quel vertice si è discusso solo di crisi migratoria e rifiuti. Dopo il colpo di Stato di Saied ma prima della sua legittimazione attraverso il referendum di pochi giorni fa, l’incontro avrebbe potuto essere l’occasione per costruire un’alleanza con il nuovo rais di Tunisia, magari per siglare un accordo di partenariato strategico o di amicizia. Niente di tutto ciò. Per noi la Tunisia è solo una fonte di problemi (leggi: immigrati o sequestro di pescherecci siciliani che sconfinano in acque tunisine) da tenere il più lontano possibile. Al massimo ci interessiamo della Tunisia in quanto siamo il suo secondo partner commerciale.
Eppure, Tunisi dista solo 145 km. da Mazara del Vallo. Lo Stretto di Sicilia è una delle strozzature strategiche del pianeta. Non solo perché attraverso le sue sponde transita un terzo del commercio marittimo mondiale ma anche perché connette l’Africa con l’Italia.
Uno dei principi della geopolitica è infatti che l’instabilità in una delle sponde di un passaggio marittimo inevitabilmente si trasmette alle altre ovvero che il caos alle frontiere retrocede un Paese a soggetto ricattabile. Il corollario che ne discende è la necessità di controllare le imboccature degli stretti, se non direttamente quanto meno attraverso governi amici. Lo avevano capito bene i francesi, che nel 1881 hanno soffiato il controllo della Tunisia al Regno d’Italia con l’approvazione dell’Inghilterra, ansiosa di non vedere le due sponde dello Stretto di Sicilia amministrate dallo stesso Paese.
E poi, Sicilia e Tunisia sono l’una dentro l’altra. In Italia vivono quasi 100.000 tunisini. L’Italia è un modello per i tunisini mentre cibi, odori e architettura del Paese dei gelsomini impregnano i borghi della Sicilia occidentale.
Ma mentre turchi, francesi, sauditi ed emiratini competono per garantirsi un legame privilegiato con la Tunisia, tutto ciò non sembra interessare a politici e opinione pubblica italiani.
La situazione libica
Almeno dal punto di vista del livello di attenzione italiana, la crisi libica sembra essere su un gradino superiore. L’obiettivo dichiarato di Roma è quello della pacificazione e riunificazione del Paese e della partenza delle truppe turche e russe che se lo sono spartito. Dopo l’annullamento delle elezioni previste per lo scorso dicembre, la mediazione dell’Onu tra il governo di Tripoli guidato da Abdel Hamid Dabaiba e quello della Cirenaica guidato da Fathi Bashaga sono falliti. Anche nell’ex-Quarta sponda italiana, intanto, la gente scende in piazza per protestare contro l’inazione dei due governi e il rincaro dei prezzi dei generi alimentari.
Non si vede perché Russia e Turchia, dal canto loro, dovrebbero sloggiare dalle Libie. Il loro controllo di un Paese che rifornisce l’Europa di idrocarburi e da cui possono riversare migranti rappresenta un’arma di ricatto a cui difficilmente rinunceranno finché non verrà trovato un accordo sulla guerra in Ucraina. Lontani sono i tempi in cui Roma era il partner strategico della Libia e della Tunisia.
Il Ponte sullo Stretto
Cosa c’entra il Ponte sullo Stretto con la stabilità della regione mediterranea e il possibile ruolo dell’Italia? Molto. Il Ponte non è una mera opera infrastrutturale. Esso consentirebbe non solo di agganciare la Sicilia all’alta velocità continentale o di intercettare i traffici che transitano per il Canale di Sicilia, ma soprattutto permetterebbe all’Italia di portare il Mediterraneo in Europa e viceversa.
I destini dell’Italia sono legati a quelli del Mediterraneo e a quelli dell’Europa. Se uno dei due fronti è in crisi, è l’Italia ad andare in crisi. Per questo bisogna salutare con delusione la bocciatura, per una manciata di voti, di un Ordine del giorno presentato alla Camera il 3 agosto scorso che avrebbe impegnato il Governo a concentrare tutti gli investimenti sul progetto a campata unica già approvato in via definitiva, anziché perdere soldi e tempo per nuovi studi di fattibilità.
Cosa fare
Mentre dobbiamo continuare a porci l’obiettivo di lungo termine della diffusione della democrazia, il realismo ci impone di comprendere che nel breve termine regimi in grado di garantire la stabilità e l’ordine – seppure senza oltrepassare la linea rossa del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo – sono preferibili al disordine. Questo vale per l’Europa e ancora più per l’Italia, Paese di frontiera col mondo del caos, e quindi maggiormente esposto degli altri soci europei alle crisi provenienti dal Mediterraneo.
In attesa che la democrazia attecchisca nella sponda Sud del Mediterraneo, ci auguriamo che il nostro futuro governo si adoperi alla riattivazione del Trattato italo-libico di amicizia del 2008 e, auspicabilmente, per la conclusione di un accordo analogo con la Tunisia.
Gaetano Massara