Una conferenza dal titolo “Quali prospettive per le relazioni italo-israeliane e transatlantiche dopo il voto del 25 settembre” patrocinata dall’Associazione Guido Carli si è tenuta alla vigilia delle elezioni di domenica scorsa. Tra i partecipanti, l’ex Ambasciatore di Israele a Roma, Dror Eydar, la rappresentante dell’American-Jewish Committee in Italia, Lisa Billig, esponenti del mondo politico e della comunità ebraica italiana. La mancata partecipazione di rappresentanti del centro-sinistra e del Movimento 5 Stelle, invitati ma non convenuti, non ha consentito purtroppo di avere un quadro completo delle possibili relazioni che saranno.
I rapporti tra la Repubblica italiana e Israele sono strutturalmente di amicizia profonda sin dai tempi della fondazione dello Stato ebraico nel 1948. Avamposto occidentale in Medio-oriente, Israele condivide con l’Italia gli stessi valori di democrazia e libertà. Inoltre, ebrei ed italiani sono stati entrambi vittime di odio etnico, sebbene la Shoah sia stata una tragedia di dimensioni più estese dei massacri dell’Adriatico orientale. Tuttavia, occasioni di diffidenza tra i due Paesi non sono mancate. Tra queste, la politica filoaraba di una parte della dirigenza italiana, come quella dell’ENI di Enrico Mattei, del “lodo” di Aldo Moro o quella di Giulio Andreotti. Oppure il caso dell’Argo 16, velivolo dell’Aeronautica italiana precipitato nel 1973 a causa, secondo alcune fonti, di un sabotaggio del Mossad, o la vicenda dell’Achille Lauro con la seguente crisi di Sigonella nel 1985.
L’amicizia tra Roma e Gerusalemme ha recentemente fatto un salto di livello, assumendo una dimensione anche militare. Infatti, nonostante Israele sia un partner mediterraneo dell’intera NATO, l’anno scorso l’Aeronautica israeliana si è unita all’esercitazione aeronavale Falcon Strike insieme alle forze americane, britanniche e italiane mentre nel luglio scorso ha avuto luogo l’esercitazione aerea israelo-italiana Scudo di fulmine nei cieli del Negev.
Vi sono diverse questioni sulle quali Roma e Gerusalemme hanno interessi comuni e potrebbero lavorare insieme.
Innanzi tutto, adoperarsi in una mediazione congiunta nella crisi ucraina. L’aggressione russa all’ex repubblica sovietica ha avuto conseguenze diverse per Italia e Israele. Per la prima ha significato un innalzamento dei costi dell’energia a livelli insostenibili, con effetti recessivi e sull’occupazione che nei prossimi mesi rischiano di diventare catastrofici. Per la seconda, ha aperto un possibile fronte di conflittualità con Mosca, della cui collaborazione lo Stato ebraico ha bisogno per contenere la minaccia iraniana in Siria e nel resto del Medio-oriente. Quindi l’interesse di entrambe converge nella necessità di risolvere il conflitto. Ed entrambe vantano ottime relazioni sia con l’Ucraina che con la Russia, almeno fino al 24 febbraio scorso.
Dal punto di vista israeliano, Il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, è ebreo ed è colui che ha chiesto la mediazione del governo israeliano. A partire dall’invasione russa, molti dei 200.000 ebrei ucraini hanno iniziato a rifugiarsi in Israele.
D’altra parte, circa il 17% della popolazione di Israele è composta da ebrei russofoni. Inoltre, quando nel 2014 Washington sollecitò la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che condannò l’annessione della Crimea alla Russia, Israele si astenne. Cosa che ha ripetuto dopo l’attacco russo del 24 febbraio, prendendo anche le distanze dalle sanzioni contro Mosca.
Il tentativo israeliano di mediazione del marzo scorso è stato rimpiazzato da quello della Turchia, che ha ottenuto lo sblocco dell’export di grano dai porti ucraini. Tuttavia, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta assumendo un comportamento molto ambiguo, quasi ai limiti dell’ostilità nei confronti dell’Occidente. Nonostante l’appartenenza alla NATO, il leader turco continua infatti a fare ammiccamenti alla Russia, all’Iran e alla Cina, come si è visto nei recenti vertici di Teheran e Samarcanda.
L’ambiguità turca così come l’escalation determinata dalle vittorie degli ucraini e dalla minaccia di Vladimir Putin di ricorso alle armi nucleari renderebbero credibile un’azione congiunta di Roma e Gerusalemme basata sulla proposta italiana dello scorso maggio, già avallata dal G7 e dai Paesi del Quint.
Il piano italiano per la pace in Ucraina è un piano in quattro fasi che prevede: il cessate il fuoco; una conferenza di pace sul futuro status internazionale dell’Ucraina, che dovrebbe stabilire l’eventuale condizione di neutralità di Kiev assicurata da una “garanzia” politica internazionale ed un suo veloce ingresso nell’Ue; un accordo bilaterale tra Russia e Ucraina sulle questioni territoriali; e un nuovo accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza in Europa.
A guidare questo processo e garantire il rispetto del nuovo assetto sarebbe un Gruppo internazionale di facilitazione, di cui farebbero parte oltre all’Onu e all’Ue anche Italia, Israele, Francia, Germania, Turchia, Stati Uniti, Cina, Canada, Regno Unito, Polonia.
L’Iran e l’accordo sul nucleare
La guerra in Ucraina e la crisi energetica rimandano alla questione dell’Iran e dell’eventuale riattivazione del Piano d’azione congiunto globale (c.d. Accordo sul nucleare iraniano). Con le seconde maggiori riserve mondiali di gas naturale, l’Iran è una superpotenza energetica le cui forniture potrebbero sostituire in poco tempo le forniture di gas russo. Tuttavia, la persistenza del regime degli ayatollah nell’evocare esplicitamente la distruzione dello Stato di Israele nonché il suo sostegno a gruppi terroristici all’estero rendono la riattivazione dell’accordo sul nucleare e la rimozione delle sanzioni all’export di idrocarburi iraniani delle strade per il momento non percorribili.
Non potendo nel breve termine guardare al gas iraniano come alternativa a quello russo, diviene giocoforza spostare l’attenzione sullo sfruttamento delle risorse di idrocarburi del Mediterraneo orientale. Ma ciò impone di trovare un accordo con la Turchia.
La chiave turca
Ankara rappresenta un fattore di instabilità, in quanto persegue esplicitamente una politica revisionista che mira a costruire una patria blu nel Mediterraneo allargato ai danni di Grecia e Cipro, come dimostrano anche le crisi in Siria, Libia e Caucaso.
Erdogan afferma minacciosamente che tutte le risorse gasiere del Mediterraneo orientale, comprese quelle di Israele, devono transitare attraverso i gasdotti dell’Anatolia. Il “nuovo sultano” si oppone, anche con atti di forza, alle introspezioni nelle acque di Cipro e alla eventuale costruzione del gasdotto EastMed, da realizzarsi con finanziamenti europei e che dovrebbe collegare il giacimento israeliano di Leviathan e quello cipriota di Afrodite con la Grecia e l’Italia.
Colloqui tra Turchia e Israele per un progetto alternativo, cioè la costruzione di un gasdotto tra Israele e Anatolia sono in corso di svolgimento. Da un punto di vista tecnico ed economico, questo progetto sarebbe quello più logico ma sottoporrebbe sia Israele che l’Europa ai possibili ricatti di Erdogan se l’Occidente non ottenesse garanzie preventive.
Una soluzione al duplice problema dell’approvvigionamento europeo di gas e del controllo del revisionismo turco potrebbe essere associare la Turchia al consorzio EastMed Gas Forum, cha al momento raggruppa tutti gli Stati del Mediterraneo orientale eccetto la Turchia, e che include Italia e Francia. Ankara andrebbe associata in modo graduale, proporzionale e reversibile, ponendosi come obiettivo la commercializzazione delle risorse di gas del Mediterraneo orientale attraverso i gasdotti turchi previo soddisfacimento di condizionalità da parte di Ankara riguardo alle controversie che vertono sul Mediterraneo orientale.
Il momento per tentare un accordo con Erdogan è probabilmente ora, viste le difficilissime condizioni economiche in cui versa la Turchia e le elezioni del prossimo giugno, in cui secondo i sondaggi Erdogan è sfavorito.
L’Italia come perno euro-atlantico nel Mediterraneo centrale
I relatori sono d’accordo sul fatto che il nuovo governo dovrà continuare a perseguire una politica filoatlantica ed europeista, ed in particolare coltivare l’alleanza con gli Usa e il partenariato strategico con Israele. Tuttavia, il graduale ritiro degli americani dal Mediterraneo schiude nuovi spazi che Roma ha l’obbligo di riempire se non vuole essere prevaricata da concorrenti aggressivi e imprevedibili come la Turchia, già presente in Tripolitania e in Albania, e la Russia, che occupa la Cirenaica.
Una strategia più ambiziosa non può che essere definita con Washington, per il perseguimento congiunto degli interessi italiani e statunitensi. Più precisamente, dobbiamo farci delegare dall’America la difesa del Mediterraneo centrale e del Canale di Otranto, eventualmente in cooperazione con Inghilterra e Francia e nel quadro dell’Euroquad. Inoltre, dovremmo rinunciare a missioni militari dispendiose e a-strategiche in regioni lontane come l’Afganistan per concentrarle nelle aree di crisi del nostro estero vicino: Sahel, Balcani, Medio-oriente.
Rapporti italo-statunitensi, rapporti italo-israeliani e stabilizzazione del Mediterraneo sono quindi aspetti strettamente interconnessi la cui specificazione contribuirà a determinare il ruolo che l’Italia vorrà recitare: un ruolo da potenza regionale che contribuisce a disegnare lo spazio che la circonda oppure un ruolo da entità passiva che subisce le crisi nel suo estero vicino.
I relatori sembrano voler abbozzare implicitamente l’idea di un asse Washington-Gerusalemme-Roma dove l’Italia faccia da anello di congiunzione tra il blocco euro-occidentale e il mondo musulmano grazie ai rapporti di fiducia costruiti in decenni di cooperazione con i Paesi arabi del Mediterraneo. Tuttavia, vi sono sfumature che distinguono le diverse sensibilità.
Andrea Orsini (Forza Italia) sottolinea che «l’amicizia con Israele, gli Usa e l’appartenenza all’EU sono una conditio sine qua non per la partecipazione di FI a qualsiasi governo».
Marco Scurria (Fratelli d’Italia) conferma quanto affermato dal suo collega ma ricorda come «l’Italia sia stata debole, se non assente, nei momenti cruciali della costruzione europea. Solo un governo legittimato da un forte mandato popolare e centrato sul perseguimento degli interessi nazionali sarà in grado di costruire ponti con l’Europa. Un’Italia forte è anche nell’interesse dell’Europa e degli Usa». Per quanto riguarda l’Iran, prosegue Scurria, «l’atteggiamento di Teheran è inaccettabile. Tuttavia, proseguire nel dialogo è necessario. Un gruppo di facilitazione potrebbe essere utile».
Inserire l’Italia, aggiungiamo noi, nel gruppo dei P5+1 (Usa, Regno Unito, Cina, Russia, Francia, Germania) che ha negoziato l’Accordo sul nucleare iraniano dovrebbe essere un obiettivo del prossimo governo in considerazione del volume dell’interscambio commerciale e delle relazioni cordiali tra Roma e Teheran prima dell’introduzione delle sanzioni.
L’Ambasciatore Eydar non nasconde la propria delusione quando, pur definendo le relazioni italo-israeliane come «profonde e intime», afferma che il comportamento dell’Italia resta «un enigma». «Non si spiega infatti», prosegue Eydar, come mai «dal 2015 le Nazioni Unite hanno approvato sei risoluzioni che condannano l’Iran, sette che condannano la Corea del Nord, otto la Siria, 19 la Russia e ben 122 Israele. E in queste ultime, l’Italia ha votato ben 89 volte contro Israele, 33 volte si è astenuta e non ha mai votato in favore dello Stato ebraico». Particolarmente dolorosa è «la decisione di un tribunale italiano contro Israele». Il riferimento è alla sentenza emessa nel 2020 dal Tribunale di Roma il quale, confermando una risoluzione del 2017 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha rigettato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico.
Anna Bonfrisco (Lega), intervenuta dopo il diplomatico israeliano, sembra essere la più aperta alle argomentazioni di Eydar. Ciò è in coerenza con la linea del suo partito, il cui leader Matteo Salvini ha più volte espresso il proprio appoggio al trasferimento della capitale israeliana da Tel Aviv a Gerusalemme. Bonfrisco non ha mancato di aggiungere dichiarazioni di stima per Benjamin Netanyahu, il quale è stato il fautore degli Accordi di Abramo ed è dato per favorito alle elezioni del prossimo novembre.
Secondo l’Ambasciatore Gabriele Checchia, è cruciale riuscire a contenere la minaccia rappresentata dal regime degli ayatollah in Iran, fattore di destabilizzazione per la Siria, il Libano e l’intero Medio-oriente. A tal fine occorrerebbe (ri-)cooptare nella sfera atlantica la Turchia, attualmente ostaggio non solo di Erdogan ma soprattutto del Partito d’azione nazionalista guidato da Devlet Bahceli.
Per il bene dell’Italia ci auguriamo che il nuovo esecutivo di Roma sarà in grado di vincere queste sfide.
Gaetano Massara