(ilnardi.it) – In tutte tre i casi il bestiario italiano non manca di mettere in scena le prefiche le cassandre. Tutti a puntare il dito. Qualcuno osa: “io lo avevo detto”. Ma a rileggere non lo aveva detto nessuno. Eppure la sberla è arrivata e fa male. Anche se annunciata, quella del 25 settembre si perpetra nello psicodramma che chiede e ottiene subito una vittima sacrificale: il segretario. Ma non basta. Il lutto va consumato con maggiore senso di lacerazione e allora entrano le analisi. Tra queste quella di oggi, fatta da Filippo Andreatta (figlio di tanto padre) appare quella maggiormente emblematica. Andreatta prospetta una divisione tra “riformisti” e “massimalisti” per poi fare cartello elettorale durante le elezioni. L’intelligenza rara quindi prospettando due nomi con un carico storico di questa portata non potrà che vederli contrapposti. E con quale ritrovata unitarietà potrebbero ritrovarsi in una proposta coerente? Con quale leadership? Si pensa veramente che il gioco di fare il pieno nel proprio orto sia la strada per capitalizzare più voti?
Era la stessa logica che sottesamente albergava nella separazione tra il cosiddetto terzo polo e il PD. Separati al fine ciascuno di fare il pieno. Calenda & Renzi tra i liberal democratici (come se avessero mai rappresentato una componente elettorale significativa, si ricordi di Malagodi) Enrico Letta tra i suoi. Ha prodotto il risultato che ha prodotto. E non si dica che l’alleanza di cartello sarebbe stata l’obiettivo auspicabile. I liberali di Calenda non lo avrebbero votato preferendo ancora Forza Italia e gli indecisi del PD non avrebbero risposto alla chiamata di responsabilità. Lo stesso vale per i Cinque Stelle. Recuperare per loro era possibile – ed è stato parzialmente possibile – richiamandosi come aventi il merito del reddito di cittadinanza e rinnovando l’acerrima avversione al resto del mondo politico. Diversamente avrebbero dissipato il proprio elettorato potenziale al non voto o alla destra.
E allora si apre il dibattito con la peggiore paccottiglia della sinistra: la discussione identitaria. C’è chi dice citando Bobbio: “prima capire chi si è per poi decidere dove voler andare”. La citazione è a sproposito perché estrapolata in contesti totalmente diversi. Quando cioè si rilanciava il dibattito su quale riformismo. Se proiettato in una dimensione di forte pragmatismo oppure se avviato a una dimensione prospettica liberatoria, in grado di dare ragione alle conflittualità che arrivavano dalla società civile, oltre che dalla classe lavoratrice. In mezzo c’è stato Tony Blair, grande artefice del neo-progressismo, il cui disegno riformistico è rimasto un sogno spezzato al pari dell’utopia. Quindi si dirà: E allora me tengo l’utopia! Ma tra le grandi esperienze riformistiche c’è anche Felipe Gonzales che ebbe il merito di portare in senso progressista le esigenze del neo-riformismo pragmatico. Ma sempre con magri risultati. Nessuno ha fatto epoca. Impossibile citare i nostri mostri. Craxi ebbe il merito di dare identità a un paese colonia americana, a dare impulso ad un controllato neo liberalismo in grado di far andare il pianeta impresa a briglia sciolta. Ma questo non si può ancora dire. E forse in Italia non si dirà mai. Come può il PD sottoporsi così all’hegeliano processo dell’autocoscienza-coscienza-ragione? Mai.
Si discuterà prima di nome. Ma sostanzialmente ci si azzannerà sui nomi. Sono quelli sempre al centro del contendere.
Nessuno dice, invece, che il centro della questione sta nella forma-partito. Un’organizzazione che vuole rifarsi alla democrazia come valore sostanziale deve applicare criteri democratici innanzitutto nella sua formazione. E allora: classe dirigente formata dal basso, dalle discussioni, da quelle che un tempo si chiamavano sezioni. Scala gerarchica formata sui meriti conseguiti sul campo e dimostrabili. Leader che accettano la logica del maggioritario misurandosi nei collegi senza paracadute di recuperi al proporzionale. Così si forma una vera classe dirigente. Non sulle chiacchiere di cui i giornali riempiono la paginazione, prima di relegarlo ad argomento senza interesse.
Ma soprattutto dimostrare di saper parlare un linguaggio-altro dal lessico imposto nell’agenda istituzionale o di quella dettata dalle necessità economiche. Senza regalare sogni, riuscire a dare una prospettiva di cambiamento che coinvolga il lavoro come protagonista.
Come dice una vecchia canzone: “Non è facile però è tutto qui”.