AGI – Quel giorno, quando Carlo III sarà ufficialmente incoronato ed al suo fianco avrà Camilla eretta al rango di Regina consorte, quel giorno potrebbe essere per lui uno spartiacque. Soul-searching puro, altro che quella passeggiata di salute che lo sta portando al Numero 10 di Downing Street. (In ritardo sul previsto, in verità, ma non è più l’Inghilterra di una volta e anche il treno della Storia finisce per prendersela comoda).
Un partito Tory confuso e anche un po’ deriso sta scegliendo lui, Rishi Sunak, come prossimo premier. E lui, che ci puntava già un paio di governi fa, a Downing Street sta per collocarsi. Lui, il primo di origini indiane. Hic manebimus optime, e per la traduzione ci si rivolga a Boris Johnson che ha studiato latino a Oxford.
Solo che a questo punto potrebbe essere sempre lui a gestire la corona che Camilla indosserà, al momento di divenire Regina. Una corona dove tra scintillii di brillanti e austeri cromatismi di velluti preziosi, spicca il Koh-i-Noor.
Se un tempo, fino al vicereame di Lord Mountbatten, l’India era il gioiello della Corona, al centro di quella corona c’era invece il Koh-i-Noor, pietra fatta di pura luce e diamante superiore a ogni record. Lo pretese per sé la Prima Imperatrice, Vittoria. Ora – proprio ora: destino cinico e avventato – un’India governata dai sovranisti lo reclama, indicandolo immancabilmente come emblema del deprecato postcolonialismo imperiale ed eurocentrico.
Sunak sarà così al tempo stesso emblema della vittoria presente e memoria vivente della sconfitta passata, perché se con Giorgia Meloni in Italia mille steccati sono caduti, il primo indiano a sedersi alla scrivania di Palmerston, Churchill e Disraeli è davvero una rivincita per molti. Ma, contemporaneamente, anche simbolo vivente del loro successo: di Palmerston, di Disraeli. Persino di Churchill, e non per comune appartenenza partitica.
Peccato non sia indiano
Intanto: peccato che non sia indiano. A essere precisi, persino la dizione “di origini indiane” non è precisa se non in modica quantità, o addirittura scarsa. Sunak è nato in Inghilterra, che è inoppugnabilmente Europa anche se non vuole più esserlo. I genitori? Keniani, addirittura.
“Civis Britannicus sum”, teorizzò Palmerston rievocando i tempi di Paolo e di Claudio. Se il primo aveva così ottenuto l’attenzione dell’Imperatore, il secondo – dopo aver conquistato proprio la Britannia alla causa di Roma – aprì le porte del Senato ai provinciali delle Gallie. Tempo quarant’anni e Roma iniziò ad essere governata dagli stranieri: spagnoli, africani, illirici.
La piena decadenza del Regno Unito
Ora, colpisce come l’arrivo di un primo ministro di radici – si sarebbe detto ai tempi di Claudio il claudicante – provinciali corrisponda alla piena decadenza di un altro impero, che si è retto negli ultimi decenni non su una primazia non più politica ed economica, ma di altra natura. Una decadenza il cui ultimo atto è stato il referendum sulla Brexit, cui Sunak ha dato il proprio benestare nel nome della unnicità e della primazia inglese. E così facendo è parso accelerare il processo, descritto e previsto da Norman Davis nel suo “The Isles”, di progressiva riduzione dello spazio di azione e di influenza delle Isole Britanniche al ristretto braccio di acque che va dalla Manica al Mare del Nord.
Insomma: il Sunak che segna la vittoria delle Province sull’Impero come in un libro di Mommsen è lo stesso Sunak che potrebbe, alla fine, seppellire la sua adorata Inghilterra. Perché inglese è, e fino al midollo. Perfetto Englishman, come Johnson, Liz Truss e Cameron. Come avrebbe voluto tanto esserlo Harold Abrahams di “Momenti di Gloria”. Ma quell’Inghilterra non esiste più. Non esiste più fin dai tempi di Lord Mountbatten.
Non importa allora chiedersi che fine farà, a questo punto, il Koh-i-Noor.
La moglie “no dom”
All’epoca dell’ultimo governo Johnson, in cui lui serviva da Cancelliere dello Scacchiere, la Bbc riferì delle sue ricchezze, di quelle della moglie e di come quest’ultima risparmiasse due milioni l’anno perché “no dom”, che non vuol dire senza casa ma senza domicilio. Cioè: cittadina britannica ufficialmente non residente in patria, e quindi non sottoposta al regime fiscale di sua Maestà. Un antico retaggio, guarda caso, dei tempi dell’Impero e dei privilegi accordati a chi andava in giro per il mondo a colonizzare. Quanto a Rishi, la Bbc impietosa riferiva che aveva mantenuto fino alla nomina a ministro la comodissima green card americana. Le ex colonie hanno pur sempre il loro fascino.
La doppia circostanza ci permette una riflessione più ampia, e più profonda: sulla britannicità come sulla cittadinanza. Fu il suddetto Lord Palmerston a forgiare l’idea della unicità insostituibile della cittadinanza britannica. Aveva appena bombardato Atene con la scusa di difendere gli interessi fiscali di un portoghese con passaporto inglese, Don Pacifico.
I nonni sì che erano del Punjab, ma sono tanti e tanti anni fa: troppo poco, forse, per renderlo indiano agli occhi esigenti di Narendra Modi. I suoi ricordi familiari dell’India risalgono ai tempi di Nehru.
Però, a guardar bene, anche in questa minore saga familiare c’è molto di Impero, perché gli indiani finiti in Africa ai tempi di Vittoria ce ne furono molti. È nota la modalità (la stessa usata cent’anni prima con gli irlandesi e gli scozzesi da spedire in America): un latifondista gli pagava il viaggio, loro riscattavano il biglietto lavorando gratis vent’anni, alla fine ricevevano una pala ed un sacco di sementi e poi via, a sopravvivere da qualche parte. Rule Britannia, ecco la tua grandezza.
Non è il caso, questo, della famiglia Sunak, ma il precedente è evocativo. Evocativo anche il pensiero del giovanotto che serve ai tavoli di una Curry House in attesa di finire, anche lui, a Oxford. Seguiranno soddisfazioni accademiche e soldi a palate.