Pasolini è oramai uno stereotipo lessicale. Sicuramente non si sarebbe mai immaginato di finire così. In “un modello di società che aveva fatto dell’omologazione il feticcio del suo riconoscimento” oramai non c’è circostanza in cui si parli di devianza sociale, indignazione, anticonformismo, demolizione del pensiero unico, rabbia impotente, ma anche desiderio del sacro come liberazione … che non si debba far riferimento a Pier Paolo Pasolini. La sua opera è sterminata. Va dalla poesia, alla critica letteraria, dalla saggistica alla letteratura vera e propria per sconfinare sul cinema. Si impicciava in diverse discipline e non sempre a pieno merito di sé e del paziente lettore. Però dire questo è una bestemmia ancor più forte di quelle antiideologiche che esplodeva lui stesso.
Oggi non sono le sue frequentazioni discutibili o l’adozione di raffigurazioni “post-raffaellita” – come ebbe a dire Luigi Pintor su Il Manifesto: “Ma io penso che manchi qualcosa di essenziale alla sensibilità di una persona che sa percorrere quartieri poveri su una cilindrata postraffaellita, simbolo odioso di violenza, superiorità e abuso”. In questa asserzione c’è una forte sintesi della contraddittoria e perversa valenza della persona.
Volendone tratteggiare gli elementi salienti del poeta friulano, escludendo l’esaltazione e le lodi presenti in una miriade di testi, si ritiene di operare il lavoro più onesto e apprezzato. Non serve a nulla e non aiuta a comprendere le molte valenze del personaggio oggi trattarne in toni agiografici parlandone come un profeta incompreso.
Pasolini fu compresissimo. Aveva editori che pubblicavano anche le sue interiezioni, si aprivano le porte a sue proiezioni visionarie proponibili in film che non hanno aggiunto nulla alla storia del cinema, era ripreso in ogni suo intervento, pur non avendo uno schieramento politico da sostenere, l’autore era sostenuto come emblema di libertà. L’Italia di quegli anni ancora attanagliata da fascismo e antifascismo con un centrismo immobile nella classe di governo, ne aveva bisogno.
L’alienazione dell’umanità soffocata da un nuovo fascismo rappresentato dai mezzi di comunicazione era una questione già affrontata da Marshall Mc Luhan. L’Uomo a una Dimensione perché le altre possibili sono occultate da un meccanismo sottilmente oppressivo costituito nella società dei consumi, fu un tema affrontato da Herbert Marcuse. Il fatto che la vittoria contro i sistemi totalitari non ci avrebbe salvato da altri totalitarismi striscianti fu un tema dibattuto nella Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno e lo stesso Marcuse). Eppure se si toccano questi tempi il riferimento è a lui, il poeta, regista, romanziere, saggista, polemista trovato cadavere nell’Idroscalo a Ostia. La sua morte sulla quale ancora aleggiano supposizioni e sospetti appare come il diretto corollario della violenza da lui del potere, da lui costantemente rappresentata, nei confronti del corpo, essendone già violato l’animo. Oppure come scrisse Alberto Moravia: “La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nella sua opera, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi, bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile”.