Minore tra le grandi potenze o maggiore tra le piccole potenze? Questo fu il dilemma costante dell’Italia dall’unificazione fino agli anni ’80 del secolo scorso. L’esuberante crescita economica del secondo dopoguerra toccò l’apice nel 1991, quando l’Italia divenne la quarta potenza economica mondiale dopo Stati Uniti, Giappone e Germania riunificata, davanti a Francia e Regno Unito.
Ciò accontentava i dirigenti italiani, che non si posero la necessità di dare alla Repubblica un peso politico corrispondente a quello economico. Ma il crollo del muro di Berlino e la nuova spinta alla globalizzazione sancita dall’allargamento dell’Organizzazione mondiale del commercio a nuovi membri tra i Paesi emergenti avviarono un processo di graduale declassamento dell’Italia. Oggi ci troviamo così ad essere l’ottava potenza economica del mondo; posizione ancora di tutto rispetto ma con tendenza al declino. E continuiamo ad essere un nano politico che raramente può, o peggio vuole, incidere sulla scena mondiale.
Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni è consapevole di tutto ciò. I primi 100 giorni alla guida del governo dovrebbero essere usati per segnalare un’inversione di rotta, confermando il posizionamento dell’Italia nel solco dell’alleanza atlantica e dell’architettura europea ma rivendicando nelle parole e nelle azioni un peso maggiore, in particolare nel Mediterraneo.
Le prime missioni all’estero, come avviene per tutti i governi di nuova costituzione, avranno l’obiettivo di conoscere e farsi conoscere dai partner chiave e, sperabilmente, stabilire con questi una “chimica” positiva. Ma il tratto distintivo della “linea Meloni” dovrà essere chiaro da subito: il perseguimento dell’interesse nazionale italiano, senza complessi di inferiorità e mediante rapporti franchi, che «potranno portare soltanto vantaggi ai nostri rapporti» con alleati e partner.
Buone le prime
Questo è quanto Meloni ha messo in chiaro nel primo incontro internazionale, non programmato ma opportuno e tempestivamente organizzato in occasione della visita a Roma del Presidente francese Emmanuel Macron il 23 ottobre scorso. «Caro Emmanuel, tu difendi gli interessi francesi, io quelli italiani. Su certe cose andremo d’accordo, su altre litigheremo», ha detto la premier italiana al presidente francese. Sul fronte degli interessi in comune, vi sono l’alleanza anti-tedesca per la revisione del Patto di stabilità, la difesa della sovranità alimentare, del “made in Italy” e del “made in France”, la necessità di risposte comuni al caro energia, il sostegno all’Ucraina, la lotta contro il terrorismo in Sahel. Sul fronte competitivo, «l’atteggiamento predatorio che la Francia ha avuto in qualche occasione», i dossier Ita e rete unica delle telecomunicazioni, la Libia e forse la sbilanciata governance di FCA. Sul piano tattico, se la Francia si riserva di utilizzare l’arma della «vigilanza sul rispetto dello stato di diritto» da parte dell’Italia come affermato dalla ministra Laurence Boone, Roma avrà la possibilità di disattivare oppure, se sarà brava, sfruttare a proprio vantaggio il trattato italo-francese del Quirinale, voluto dalla Francia per agganciare a sé l’Italia. La discordia franco-tedesca schiude degli spazi di manovra che l’Italia deve saper sfruttare.
Il 3 novembre Meloni si è recata a Bruxelles per incontrare i vertici delle istituzioni europee. “Ho voluto organizzare qui a Bruxelles la prima visita istituzionale del governo per dare il segnale di una Italia che vuole partecipare, collaborare e difendere l’interesse nazionale dentro alla dimensione Ue insieme agli altri Paesi” ha detto Meloni. Intesa naturale quella con il Presidente del Parlamento europeo, la maltese Roberta Metsola, conservatrice pro-vita che si esprime in perfetto italiano. Incontri molto positivi che smentiscono le frizioni della campagna elettorale, quelli con il Presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e con il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Al di là dei temi discussi, dalla necessità di continuare nel sostegno all’Ucraina alle misure contro il caro energia alla richiesta italiana di rimodulare, senza stravolgerlo, il Pnrr per tener conto dell’inflazione, ad una migliore gestione dei flussi migratori, ciò che conta è lo spirito collaborativo creatosi attorno alla leader italiana.
Il vertice sul clima di Sharm el Sheikh è stata l’occasione per un veloce bilaterale col cancelliere tedesco Olaf Scholz. Meloni dovrà convincere il collega della convenienza tedesca ad un meccanismo di controllo del prezzo del gas e ad un sistema di perequazione verso imprese e famiglie di quei Paesi maggiormente colpiti dal caro energia e che non hanno sufficienti spazi di bilancio per manovre di sostegno. Pena il rischio per l’industria tedesca di dover rinunciare alle forniture di semilavorati italiani o addirittura di una nuova crisi dell’unione monetaria.
Nel braccio di ferro italo-tedesco vi è anche la questione dei migranti. Meloni ha confermato il rispetto degli impegni internazionali dell’Italia in materia di soccorso in mare ma ha affermato il rifiuto ad una interpretazione estensiva ed arbitraria di tali norme che giustificherebbe il presunto obbligo dell’Italia di consentire l’approdo alle imbarcazioni delle Ong che fanno la navetta con la costa nord-africana.
Biden, Kiev, Gerusalemme
E’ probabile che Meloni approfitti del G20 di Bali del 15 e 16 novembre per un bilaterale col presidente americano Joe Biden. Con il quale non dovrà solo ribadire la fedeltà italiana all’alleanza con gli Usa, ma – auspichiamo – anche farsi intestare da Washington il presidio del canale di Sicilia, strettoia che ci separa da una delle zone più turbolente del pianeta e per noi di importanza vitale. Non solo per contenere i flussi migratori ma per ragioni di mera sicurezza, siano esse l’accesso alle fonti energetiche del Nord Africa o prevenire eventuali minacce da parte di potenze ostili – leggasi Turchia e Russia – che controllano le coste di fronte alla Sicilia.
Il modo migliore per segnalare la continuità della solidarietà italiana all’Ucraina è un viaggio a Kiev. Questo potrebbe essere l’occasione per rilanciare la proposta di pace italiana dello scorso maggio, già avallata dal G7 e dai Paesi del Quint, eventualmente previa consultazione con gli alleati. La missione dovrà anche essere l’occasione per assicurare all’Italia una fetta delle opere di ricostruzione del Paese.
L’ultimo dei viaggi post-elettorali dovrebbe essere quello in Israele. Meloni potrebbe essere il primo capo di governo straniero ad essere accolto dall’intramontabile Benjamin Netanyahu, appena eletto per la terza volta alla guida del governo di Gerusalemme. La salda alleanza tra Italia e Israele così come il sostegno italiano allo Stato ebraico contro le minacce del regime degli ayatollah iraniani non devono far derogare il governo italiano dalla tradizionale posizione europea di equidistanza nella disputa arabo-israeliana. Tuttavia, varrebbe la pena avanzare una soluzione basata sulla creazione di tre Stati indipendenti: uno Stato ebraico entro i confini del 1967, uno Stato palestinese a Gaza e uno Stato binazionale ebraico-palestinese in Cisgiordania. Tale soluzione pragmatica avrebbe il carattere della novità, oltre al grande merito di riflettere la situazione sul terreno.
La seconda fase: la sicurezza nell’estero vicino
La parte rimanente dei primi 100 giorni dovrebbe essere dedicata a mettere in sicurezza il nostro estero vicino, costruendo rapporti preferenziali con quegli Stati la cui instabilità o alleanza con Paesi nostri concorrenti è una potenziale minaccia per l’Italia. E’ il caso innanzitutto della Libia. Un viaggio a Tripoli segnalerebbe alle autorità libiche e ai nuovi colonizzatori turchi e russi che il governo italiano continuerà ad adoperarsi per una piena ownership libica del proprio destino. Obiettivi: messa in sicurezza dei giacimenti di gas di Eni; riattivazione dell’accordo di amicizia italo-libico del 2008 con annesso rapporto “speciale e privilegiato”; riunificazione del Paese ed elezioni; evacuazione delle truppe straniere.
Complementare ma non meno importante, una missione in Tunisia. Ad un braccio di mare dalla Sicilia, colpito da una gravissima crisi economica che ha portato il numero di emigrati tunisini in Italia a quasi 100.000, abbiamo lasciato che delle sorti del Paese dei gelsomini si occupassero Turchia, monarchie del Golfo e Francia, che l’anno scorso ha orchestrato un colpo di Stato a beneficio del presidente Kais Saied. Lontani sono i tempi in cui Roma era il partner di riferimento di Tunisi.
Analogo discorso per l’Algeria, divenuto nostro primo fornitore di gas dopo il taglio delle forniture russe. L’azione diplomatica del presidente Sergio Mattarella e dell’ex premier Mario Draghi è stata tempestiva nell’assicurarci un incremento dei flussi di gas. L’Algeria è attualmente il Paese nord-africano a noi più vicino ma la nostra dipendenza dal gas algerino renderà più difficile un accordo sulla delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive, dopo che Algeri ha unilateralmente esteso la propria fino alle coste sarde.
Anche un viaggio in Albania è necessario. La Repubblica delle aquile è ancora più importante che in passato per l’Italia per almeno tre motivi. Primo, posta al di là di uno dei due istmi mediterranei della penisola italiana, non possiamo permetterci che cada nelle mani di Paesi a noi potenzialmente ostili. L’accordo di cooperazione turco-albanese del 2020 impegna la Turchia ad ammodernare le forze armate albanesi e a rifornirle di armamenti di produzione interamente turca, compresi i micidiali droni Bayraktar. La Turchia installata in Albania e in Tripolitania è in grado di minacciarci riversando sulle nostre coste i migranti o addirittura militarmente.
Secondo, gli albanesi da noi colpevolmente trascurati considerano l’Italia più di un semplice alleato, ma come una nazione sorella a cui ispirarsi. Occorre quindi un accordo di amicizia italo-albanese che stabilisca un rapporto speciale e privilegiato. Dal punto di vista militare deve consentire alle forze armate italiane di affiancare, se non sostituirsi, a quelle turche. Dal punto di vista culturale, l’italiano deve essere la seconda lingua straniera studiata nelle scuole albanesi. Conoscendolo, siamo sicuri che il Primo ministro di Tirana, Edi Rama, ne sarebbe felice.
Terzo, la riorganizzazione dello spazio ex-jugoslavo non è terminata con le guerre degli anni ’90. Il riaccendersi delle tensioni in Kosovo rischia di scivolare in uno scontro aperto tra serbi e albanesi, con gravi ripercussioni per l’Italia. Vantiamo eccellenti rapporti sia con Tirana che con Belgrado. Abbiamo l’opportunità di riattivare il vertice italo-serbo-albanese inaugurato nel 2015 e poi interrotto, per aiutare Rama e il presidente serbo Aleksandar Vucic a preparare la roadmap che porti alla soluzione che entrambi hanno in mente ma non possono ancora esplicitare.
L’agenda è fitta ed il compito arduo. Ma Giorgia Meloni non manca di coraggio e determinazione.
Gaetano Massara