“Se le cose fossero sempre così:…che ti portano via le armi e ti lasciano questa roba qua… si vivrebbe meglio.”
Questa, la frase pronunciata nella scena al tramonto cui si riferisce l’immagine proposta in questo articolo, dal personaggio “fumato” – interpretato da Diego Abatantuono – e intento a farsi fare un massaggio da un commilitone, in “Mediterraneo” – pellicola lungometraggio di Gabriele Salvatores, che proprio il trenta marzo del 1992 gli valse l’Oscar come Migliore Pellicola Straniera.
“Marrakech Express” del 1989, “Mediterraneo” del 1991, e “Puerto Escondido” del 1992 – la trilogia della fuga.
La Fuga: il grande fantasma che rincorre dall’interno molti esseri umani lanciati come dadi sul “grande piano liscio” del Mondo: inadeguati, inidonei, incapaci, insufficienti, manchevoli, non all’altezza, sconvenienti, inopportuni, inappropriati. Fuori luogo.
L’aspetto forse più attraversabile dallo strumento chirurgico paziente e compassionevole del racconto cinematografico, della vulnerabilità di questi piccoli esseri che con le loro gambe da omini, e con le loro braccia e testoline, e le loro piccole furbizie, e strabilianti intermittenti intelligenze – e con tutti quei loro sogni dentro – si calano nella dimensione del viaggio “lontano da“. Ma lontano da dove vogliamo andare con queste nostre mediocri gambe da piccoli esseri umani?
Eppure, proprio da questo tentativo di cercare altrove, si schiude la botola fantasmagorica che affaccia su una grande abissale umanità in una “apnea senza sonoro“, in cui personaggi come quelli disegnati da Gabriele Salvatores brillano di perfetta imperfezione e si rendono adorabili nella sconquassatezza delle loro scelte goffe e buffe, nella medriocrità delle loro misure; nelle loro voci che parlano ma non si sentono abbastanza; nei lineamenti dei loro volti che – spostati un pò più in là, per uno strano scherzo del caso – non sono belli come avrebbero potuto, o magari hanno aspettato un istante di troppo a rispondere in quel passato momento giusto che non tornerà più indietro, e null’altro gli restituirà. E allora, eccoli – costretti in quell’apnea appunto, a dimenarsi tra altri ometti anche loro rimasti incastonati in quel piccolo abisso – universo in miniatura; e allora la vita diventa commedia: e ridono tra di loro come “e adesso ridono dentro al bar“, nella canzone di De Gregori.
Storie che raccontano la bellezza che resta per sempre incastonata nello sguardo di un essere umano, quando un attimo dopo avere capito di essere stato sconfitto da quell’istante appena andato perso e già nel Grande Libro del Passato, sente che null’altro può se non accettare tutto questo. E prendere di nuovo – ancora una volta – fino in fondo – con tutta la sua inadeguatezza; con le “ginocchia sbucciate”, e brucianti – fino in fondo prendere insomma, un altro ennesimo, maldestro respiro: bandiera senza vento che testimonia la vita che ancora c’è, e la libertà che in essa pulsa – unico nervo sano. E andare avanti.
F.B.