C’era un tempo in cui le sortite retoriche erano bandite nel linguaggio internazionale. Andavano bene nei comizi, ma erano anche rispiegate e corrette quando se ne chiedeva conto. Nel secondo ventennio del secondo millennio gli storici dovranno registrare l’ingresso della verbosità da taverna anche nei rapporti internazionali. In un mondo in cui lo scenario di armamenti non è declinato, anzi conteggia un potenziale distruttivo tale da cancellare vita umana dal pianeta diverse volte. Eppure i leader per darsi credibilità si lanciano nel dileggiare l’avversario della scena internazionale. È successo a Mario Draghi che dette ad Erdogan del “dittatore”. Gli fu risposto, quasi a mo’ di burla, dal diretto interessato che lui era stato eletto, Draghi no.
Ieri è stata la vota di Joe Biden nei confronti di Xi Jinping. Inutile stabilire simpatie precostituite per i due. Qui non si tratta di capire da che parte stare per assecondare tout court quel che dice l’uno o l’altro. È il peso assertivo di certi titoli denominativi. Anche Biden ha dato del dittatore al presidente cinese. Non c’era alcuna enfasi situazionale che spingeva a dire una cosa di questo tipo, ci si trovava in un evento per una raccolta fondi elettorale in California. Forse Biden voleva dimostrare quanto era bello e trasparente il modello occidentale per cui si fanno campagne elettorali sostenute economicamente dagli stessi cittadini. In verità Biden voleva commentare la questione dei palloni spia attribuiti alla Cina. Una grave violazione, certo. Non ha mancato di farsi sentire la portavoce del ministero degli Esteri Mao. Nel corso del briefing quotidiano, ha detto che i giudizi di Joe Biden sono “assurdi e irresponsabili” e violano la “dignità politica della Cina”. “La Cina esprime disappunto e forte opposizione”.
Nella vicenda dello spionaggio tecnologico si potrebbe rispolverare il vecchio apologo romanesco in cui “il bue dice cornuto all’asino”. Troppo grottescamente ripetitivi certi atteggiamenti per ritenere che una pubblica accusa possa minimamente attecchire sulla coscienza comune.
Resta però la prova di forza puramente verbale. Resta la frase da “spacconi”. Come se si fosse davanti a un bar per provocare il contendente della stessa risma.
All’abbassamento del livello sul piano del più lessico da strada però si riflettono rapporti di forza costantemente tesi e alternanti in cui a contare non sono le parole o gli atti fini a sé stessi ma i volumi, le quantità di zeri associati alle operazioni di macro economia che i colossi sono in grado di dispiegare. Ma per quelle non ci sono i governi correnti a garantire. Quelle seguono una logica tutta loro ed è su di loro che bisogna valutare per capire quali dinamiche sono in atto e quali gravami dovremo sopportare. Ma tutto questo non c’è nella discussione da osteria.