Due giorni scatenati di lanci e ribattute sulle parole dette in campo nel pieno di una trance agonistica. La trance agonistica è uno stato che qualsiasi atleta di livello ha vissuto. Vede scendere inconsapevolmente i livelli di self control, quelli che parlano bene riferiscono “uno stato dissociativo funzionale”. Cioè la circolazione del sangue fluisce nelle parti cerebrali che meglio servono alla reattività del momento e non si cura di selezionare parole, modalità espressive ed altro. Avvengono così alterazioni dello stato di coscienza. Sensazioni e percezioni si regolano solo sul momento agonistico reso al massimo.
Sono questi i momenti in cui esce fuori il peggio di sé. È successo a Francesco Acerbi nel corso della partita Inter Napoli. Ma lo stesso è successo a una miriade di persone in questi momenti. Fa parte dello stesso tipo di comportamenti di quando un difensore fa un fallo eccessivo per fermare l’attaccante o quando l’attaccante fa un fallo di reazione, dà una gomitata a freddo nella consapevolezza di far male. È qualcosa di sbagliato e abominevole. Lo sappiamo. Ma terribilmente umano. Ed è il lato umano che rifiutiamo di noi e temiamo di veder celebrato in televisione alla portata di tutti.
Quindi si pensa che si si fa passare un atteggiamento di questo tipo in un momento educativo permanente, quale è un evento televisivo, si fa passare come facente parte della normalità. Sarebbe quindi sdoganato l’epiteto razzista nella vita comune.
Ciò non è. Ed è giusto redarguire l’autore, chiunque sia, di queste pessime manifestazioni di sé. Ma con la chiara consapevolezza che queste continueranno ad essere e non sono parole dette per slancio verbale determinato dall’agonismo, o peggio per provocazione, che si limita il comportamento razzista nelle strade e nei luoghi di comunità.
Si educa invece alla repressione. Siamo proprio sicuri che la repressione sia il metodo per combattere il razzismo? In questa vicenda la vittima, in definitiva, adesso è Francesco Acerbi che deve sopportare la gogna mediatica perdurata su un fatto di cui non si è riusciti nemmeno a enucleare i momenti locutivi decisivi. Non si capisce cosa si sono detti. Cosa ha detto precisamente Acerbi. Se ha lanciato una parola da scemo. Se l’ha detta nel contesto di una frase razzista. Se l’ha effettivamente detta!
Gli sportivi conoscevano Acerbi come una persona religiosa, come un bravo ragazzo che nella sua vita ha avuto il trauma di esser malto di tumore e di averlo superato.
“Frasi razziste dalla mia bocca non sono mai uscite – continua a dire – Sono 20 anni che gioco a calcio e so quello che dico. Sono tranquillo”. Così dovrebbero esserlo anche i commentatori che invece hanno preso il caso come un elemento di esercizio per aggiornare le giaculatorie televisive.
Ma in una fase storica in cui le massime diplomazie internazionali e la dialettica politica è forgiata da epiteti con offese personali – senza alcuna gara di mezzo che mette in ruolo preminente la fisicità dello scontro – ha senso questo stillicidio mediatico per una parola detta? (Che forse non è stata nemmeno esattamente detta).