Grazie a tecniche sui calchi, sono state ricavate dal vuoto le sagome delle vittime per l’eruzione del Vesuvio, avvenuta nel 79 a.C. Sono quattro calchi. Mostrano la sofferenza di queste persone e ce le fanno sentire vicine. Evidenziano che quei quasi duemila anni sono nulla davanti ai temi della fragilità della vita, del passaggio in cui consiste nell’oscurità del vuoto, dopo.
“Sono un invito a ricordarci che al di là delle uova di cioccolato, c’è una storia di uomini e donne che ci è stata tramandata, e che Pompei ci può aiutare a comprendere quel mondo in cui molti elementi della nostra cultura affondano le loro radici, non ultimo il cristianesimo”. L’ha detto il direttore del Parco Gabriel Zuchtriegel, e l’ha riferito l’Ansa.
Ma la domanda che si pongono sono di diversa natura: cosa possono aggiungere i calchi di Pompei davanti a una verità che appare costante nella vita di una persona? C’è bisogno di vederla veramente rappresentata per capire quanto è transitoria la vita?
Ma anche: Se tra mille anni rinvenissero le testimonianze di questa epoca di persone morte in una sciagura collettiva come sarebbero i loro corpi? (L’esempio può essere la guerra in Medio Oriente o in Ucraina).
Esprimerebbero la stessa sofferenza la cui fine, potrebbe essere recepita come una liberazione. Anche se in coincidenza con la fine della vita.
Ci insegnano allora che il vero diaframma non è tra vita e morte, bensì tra un’esistenza autentica e un’altra no perché percepita solo nella sofferenza.
E su questa autenticità ritrovata, simbolizzata nella Resurrezione, l’augurio di Buona Pasqua!