La candidata ha rifiutato di partecipare alle liste come le aveva proposto Elly Schlein. Se eletta, dovendo partecipare alle sedute dell’Unione Europea avrebbe avuto le motivazioni legali per sottrarsi temporaneamente al regime detentivo al quale è obbligata a Budapest. Accusata di aggressione e lesioni lei si proclama innocente, ma potrebbero essere dettagli davanti il grande calderone della propaganda quando questa ultima si pone come ideologia di Stato in un paese come l’Ungheria.
Avere uno scranno al parlamento europeo l’avrebbe portata innanzitutto a una situazione di prestigio che ogni magistrato del mondo pondera con attenzione. E poi a un diritto di legge di uscire dal carcere e anche sottrarsi dagli arresti domiciliari. Si tratta di un metodo molto pratico, l’unico possibile, il vero che esalta la solidarietà di un popolo nei confronti di un inquisito che però deve subire le restrizioni carcerarie.
- Sembrava un’uscita italiana. Sia nel senso del sagace modo di sfuggire a un problema grande con una soluzione diretta e pratica. Ma soprattutto nel significato per cui il nostro paese ha una fitta letteratura in merito a prestigiose uscite di galera con l’elezione o quantomeno la candidatura. Si ricorda la candidatura di Pietro Valpreda, accusato ingiustamente di aver ordito la strage di piazza Fontana, candidato per IL Manifesto, ma non eletto. Uscì per diversi sviluppi degli approfondimenti processuali. Ci fu il famosissimo caso di Enzo Tortora che entrò in carcere per accuse deboli, infondate, ma sensazionali. Marco Pannella lo candidò nelle liste radicali, fu eletto, nondimeno fu condannato rinunciò alla libertà arrivata dallo stato di deputato per avere gli arresti domiciliari ma poi fu prosciolto con formula piena. Toni Negri, sempre coi radicali, fu arrestato e incriminato grazie al “Teorema Calogero” per cui fu accusato di essere l’eminenza grigia delle Brigate Rosse, gradualmente il capo di imputazione però si spostò a reati diversamente contendibili, quali quelli di esser ispiratore degli scontri di piazza in qualità di esponente di Autonomia Operaia. Toni Negri uscì dal carcere grazie l’elezione e non vi rientrò mai più nonostante le condanne.
Storie totalmente diverse con esiti assai diversi. Hanno in comune il fatto per cui la politica si introduce in questioni giudiziarie di grande risonanza mediatica per prendere parte e salvare la sorte dell’imputato, a torto o a ragione. Trattasi nei casi storici di piccoli partiti che, pur condividendo il taglio etico dei personaggi dal liberare dallo stato di costrizione, prendevano pieno vantaggio dalle candidature eccellenti tanto da diventare emblema della lista presentata.
Lo stesso non è per il PD. Poteva trovare coerenza la presenza dell’insegnante pasionaria, che viaggia fino in Ungheria per partecipare a una manifestazione di protesta, che era stata precedentemente protagonista del lancio di sacchi di mondezza alle forze dell’ordine durante uno sgombero di centri sociali, sfilare coi professionisti della politica? Ilaria Salis lo ha capito e ha declinato l’invito.
Lo ha accettato invece quando è arrivato dall’Alleanza Sinistra e Verdi. Una compagine più affine al suo orientamento di origine ma che non le garantisce l’elezione che qualora non avvenisse non faciliterebbe la sua posizione davanti il giudice ungherese.
Ma la spinta di dire: “no, grazie” al PD, lo stesso che non ha trovato mai una parola per affrontare il tema delle carceri, della riforma della giustizia nel senso della divisione delle carriere come dei ruoli, dell’obbligatorietà dell’azione legale, della custodia preventiva, come può sposare improvvisamente una posizione di libertà?
Ed è l’attestazione più grande dell’uscita del PD dalla sfera del progressismo. Non ci si improvvisa difensori della libertà prendendo a spunto un caso clamoroso. Quello è un tratto dei piccoli partiti.