IN una delle riflessioni sul Pensiero Debole, il suo fondatore, Gianni Vattimo riconosceva la nostra e il nostro dibattito formato e composto di uomini postumi. Questa discussione sulla celebrazione del 25 aprile – siamo convinti – sarebbe stata presa ad esempio dal filosofo italiano se ancora fosse in vita.
Non servono discorsi di rito. Non aiuta vedere i massimi rappresentanti del governo in carica sfilare insieme davanti l’altare della patria. Il 25 aprile si è trasformato come il giorno della radicalizzazione delle divisioni, quelle che sempre e naturalmente si formano in qualsiasi società organizzata.
Tutto ebbe inizio dopo la vittoria di Berlusconi, la seconda, nel 2001. Allora si capì che quella del padron di Mediaset non sarebbe stata una semplice avventura episodico o un difetto di esercizio di democrazia. Bensì l’affermazione storica del proprio progetto che vedeva all’opposizione i riformisti post-comunisti.
Si levarono manifestazioni imponenti nel primo 25 aprile di quel governo in carica. Era la volontà di manifestare che la vigilanza contro ogni forma criptata di fascismo restava in piedi. Consisteva, in modo più semplice e legittimo, di mostrare che le forze dell’opposizione pur avendo perso il confronto elettorale possedevano ancora una grande forza di mobilitazione in grado di trovarsi per le forti idealità.
Sono passati più di trenta anni da allora. Non sopisce la nostalgia per quel senso dello scontro epocale tra generazioni politiche avverse. Con la differenza che il vecchio centro, un tempo caratterizzante la democrazia italiana e troppo spesso villaneggiato, si è ridotto a sparute minoranze divise e ugualmente astiose tra loro.
Lo specchio del 25 aprile è lo specchio del paese dove in realtà neanche sul valore fondante del cosiddetto antifascismo si trova l’unità almeno per un giorno. A Porta San Paolo rivaleggiano i partigiani del fronte palestinese anti-israeliano, contro la comunità ebraica che manifesta per la Liberazione avendone fatto parte effettivamente.
Se fino a poco tempo fa La Liberazione era divisiva perché creava nuovamente quel solco incolmabile tra destra e sinistra oggi è nuovamente divisiva anche in un ambito che sarebbe azzardato definire in qualche modo.
Ma sarebbe un abbaglio leggere questa realtà, come spesso si fa, come quella di un paese che guarda costantemente indietro nella sua Storia. È il segno, invece, che la propria Storia è stata rimossa insieme a tutte le implicazioni chiamanti in correo soggetti di varia natura.
Questa data è il pretesto per accentuare una divisione incapace di trovare un’espressione vera nei contenuti e nelle effettive opzioni politiche perché il governo reale è determinato da quanto si deve fare. E quanto va fatto, deve essere eseguito e basta. Perché “ce lo dice l’Europa” … “Ce lo dice la Nato” … “ Ce lo dicono questioni di opportunità necessitante” …
Il vero solco delle differenze non esiste. Sono costruite per fantasticare un oggetto del contendere. Ma l’oggetto non c’è. Non c’è scontro per la disoccupazione, perché lo stipendio diminuisce valore d’acquisto, perché i ceti più deboli sono sempre più deboli al cospetto di figure dirigistiche sempre più remunerate …
Ci si divide sull’appartenenza. E neanche il rosso e il nero sono più sufficienti a dare corpo sensibile alla divisione. A Porta San Paolo a Roma si è rischiato forte che il cosiddetto fronte antifascista arrivasse alle mani. Si abdica ai temi del conflitto per trovarne nella diversità di appartenenza perché appartenere è più facile che costruire. Questo è il solco della nostra fase storica.