La Storia del nostro paese nel secondo dopoguerra può scriversi come captazione del concetto di garantismo. Inizialmente erano le forze più liberali e di sinistra a rivendicare questo valore perché i reati della politica consistevano negli scontri di piazza o nell’acquisizione dei terreni e delle fabbriche. Gli arrestati allora avevano diritto ad essere considerati innocenti fino a giudizio finale perché dovevano essere ben ponderate le condizioni per cui erano arrivati alle loro forzature.
Ad inizio anni Novanta cambia il tenore dei tipici arresti della politica. Con Tangentopoli il soggetto viene prelevato di notte dalle forze dell’ordine per presunte malefatte in amministrazione pubblica. E anche qui: presunzione di innocenza e obbligo di dimostrare la malversazione e la responsabilità prima di esprimere un giudizio e chiedere le debite dimissioni all’amministratore di turno. Ed è lì che si tingono più di centro le invocazioni al garantismo. Fatti e controfatti negli anni successivi consentono a destra o sinistra di sventolare questo vessillo.
Nell’ultimo mese arriviamo al paradosso.
Garantismo, da una parte, richiesta di dimissioni, dall’altra, sui casi delle presunte commistioni della politica con ambienti inopportuni sono caldeggiati a Bari come a Genova. E ogni volta vedono destra e sinistra sventolare il vessillo del garantismo contro la richiesta di dimissioni.
Si tratta di un esempio semplice ed emblematico del situazionismo che attanaglia la dialettica politica in tutti i suoi ambiti.
Che sono cadute ideologie e idee-forza ce ne eravamo accorti da tempo. Che su queste evidenti vicende – pesanti come macigni su alcune persone – si giocasse con la presa in prestito di valori ce ne accorgiamo in tutta la sua plastica consistenza.
La conseguenza inevitabile è l’abbandono delle simbologie, anche nominali, per seguire la stima, la solerzia, la garanzia, offerta da alcune persone in carne ed ossa. Indipendentemente dalla loro compagine. E non è la fine della politica. È l’inizio di un suo nuovo corso.