Nel codice etico, ma anche in quello giuridico, dovremmo istituire la figura della dimissione-scarcerazione. Si tratta di un autentico ricatto per l’ottenimento della libertà però giocato su valori etici. Siamo tutti garantisti! E nessuno potrebbe dirsi diversamente. Davanti all’interdizione preventiva della libertà, determinata da un’indagine per ipotesi incriminatoria il soggetto che si vede affidato alle patrie galere, ha la possibilità di uscirne con sua lettera di dimissione. Quindi le dimissioni diventano uno strumento di libertà.
La dimissione gli consente di garantire la venuta meno delle condizioni per cui è stato arrestato. Senza il posto di comando nei pubblici uffici il soggetto attenzionato da inchiesta giudiziario non può reiterare il reato, non può occultare le prove. Può fuggire! Ma chi lo fa? Dove lo trovi un altro paese che risolve nello psicodramma ogni vertenziale questione di Stato?
Quindi le dimissioni sono diventate la misura per la restituzione di chi le dà allo stato libero. D’altra parte, come si può non darle? Trovandosi agli arresti non si può svolgere alcun ruolo. Difficile gestire anche l’organizzazione della propria difesa senza inguaiarsi ulteriormente.
E poi la richiesta sottile di dimissioni diventa il coro sussurrato che arriva all’inquisito da ogni dove. Glielo chiedono sommessamente i partner di governo che vogliono governare e non stare come dei coscritti in attesa del dipanarsi della vicenda. Lo chiedono a gran voce gli avversari politici che usano l’argomento come clava per fini di propaganda. Lo chiedono dalla struttura governata: chi è il punto di riferimento? come si va avanti? Ed è importante capirlo perché, se si andasse avanti lo stesso, potremmo riuscire a capire che in fondo di questo capo non ce n’è alcun bisogno!
E poi sul tema si potrebbero scrivere nuove sceneggiature per il cinema. Invece di Fuga per Vittoria, si scriverebbe Dimissioni per tornare a vivere! Ci si potrebbe lavorare. Invece del tortuoso tormento dei coscritti che scappano di galera raccontato in Papillon, si potrebbe scrivere: Dimission. E tutti a casa! Amici come prima. Ci si è emenda dal male di esistere, di darsi da fare, sicuramente esagerando, facendo scene a volte un po’ goffe, partendo dal proposito di essere pragmatici diventando invece praticoni …
Le precondizioni di rappresentanza pubblica per star lì e risolvere i problemi vengono meno e con il colpo di spugna della firmetta da apporre alla lettera di dimissioni ci si solleva dai mali in cui l’elezione del popolo aveva messo l’eletto. Chiaro che non tutto è risolto. Il processo dovrà svolgersi. Ma sempre la lettera di dimissione avrà dato un buon segnale di cenere sul capo.
L’alternativa per l’inquisito è quella di svolgere la propria difesa da una posizione ancora di forza dovuta alla sua carica elettiva. Ma anche questo non vale più. Non siamo nella Prima Repubblica dove il far parte di una classe, quella dei rappresentanti politici, dava uno scarto al resto della società. Il personaggio politico finito agli arresti perde gli amici, perde coloro che si sarebbero fatti in quattro per te. È solo col suo orgoglio. E con questo non si vincono le vertenze legali.